Insegnamenti alternativi all’insegnamento religioso – obbligo di attivazione – comportamento discriminatorio della scuola – danno non patrimoniale e responsabilità risarcitoria – sussistenza.
Sussiste un vero e proprio obbligo per la p.a. di attivare gli insegnamenti alternativi all’insegnamento religioso, a fronte del quale si pone una posizione di diritto soggettivo dello studente di poter frequentare detti corsi; si tratta difatti di insegnamenti facoltativi ma che devono essere offerti obbligatoriamente dalla p.a. per rendere effettiva la scelta compiuta dallo studente.
In relazione a tale obbligo la disponibilità economica dell’amministrazione non influisce sulla posizione giuridica soggettiva della persona, che rimane tale pur a fronte dell’inesistenza di mezzi economici.
La scuola che non attiva i suddetti corsi pone in essere un comportamento che indirettamente produce l’effetto di discriminare nell’esercizio del diritto all’istruzione ed alla libertà di religione
Il comportamento illegittimo della scuola è idoneo a configurare un danno non patrimoniale subito dallo studente e quindi una responsabilità risarcitoria della p.a., stante la lesione di due valori costituzionale della persona (la libertà di religione ed il diritto all’istruzione).
( Ordinanza tratta da gildavenezia.it)
***
TRIBUNALE DI PADOVA
In composizione collegiale
Sezione feriale
Composto dai magistrati:
Elisa Rubbis Pres.
Francesco Perrone Giudice
Gianluca Mancuso Giudice rel.
Il collegio, letti gli atti del procedimento n. 1667/2010, a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 29.7.10 in ordine al reclamo avverso l’ordinanza di rigetto pronunciata in data 4.6.2010;
OSSERVA
I sig.ri XX. e YY, quali genitori esercenti la potestà parentale sulla figlia minore ZZ, reclamano l’ordinanza con la quale il Giudice del Tribunale di Padova ha rigettato l’azione antidiscriminatoria dagli stessi proposta contro l’XI Istituto Comprensivo “A. Vivaldi” e contro il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Essi espongono che la figlia ZZ è iscritta, per l’anno scolastico 2009/2010, alla classe (…) della scuola primaria statale “V. Zanibon” dell’XI Istituto Comprensivo “A. Vivaldi” di Padova.
Affermano che, pur avendo optato, per conto di ZZ, per lo svolgimento di attività didattiche formative e alternative all’insegnamento della religione cattolica, la scuola non avrebbe attivato detti insegnamenti, nonostante i plurimi atti di diffida (v. doc. 1 e 2).
Affermano anzi che dall’inizio dell’anno scolastico e fino al 12 novembre 2009 ZZ sarebbe stata trattenuta nell’aula della propria classe durante lo svolgimento dell’ora di religione cattolica nelle ore dalle 8,15 alle 10,15 del giovedì di ogni settimana. In seguito a formale diffida scritta la scuola avrebbe destinato ZZ, durante il suddetto orario, e per l’intera durata dell’anno scolastico in classi parallele ove si tenevano gli insegnamenti curricolari previsti per le stesse.
I ricorrenti ritengono che tale modo di operare della scuola integri un comportamento discriminatorio ex art. 43 D. Lgs. n. 286/1998 e chiedono conseguentemente una pronunzia che, previo accertamento del carattere discriminatorio del suddetto comportamento, ne intimi alla scuola la sua cessazione.
La p.a. resistente, costituitasi nel ricorso avanti al Giudice del Tribunale di Padova, dopo aver sollevato varie questioni preliminari in rito, ha sostanzialmente non contestato nel merito la ricostruzione fattuale di parte ricorrente, limitandosi ad affermare l’indisponibilità economica della scuola nell’attivazione degli insegnamenti alternativi.
I reclamanti contestano il provvedimento reso dal giudice del Tribunale di Padova sia nella parte in cui esso nega che la p.a. abbia un obbligo di attivazione degli insegnamenti alternativi, sia nella parte in cui esclude che il comportamento sopra descritto possa qualificarsi come discriminatorio.
Il Collegio osserva, in primo luogo, che sono da condividere le argomentazioni dell’ordinanza impugnata in ordine ai profili preliminari inerenti la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, la competenza del Tribunale di Padova, la ritualità del ricorso introdotto. Tali argomentazioni devono ritenersi qui richiamate per intero.
Nel merito occorre in via preliminare esaminare la questione inerente la sussistenza o meno di un obbligo per la p.a. di attivare gli insegnamenti alternativi all’insegnamento religioso.
Al proposito si ricorda come la materia tragga le proprie fonti normative da plurimi atti. Innanzitutto dall’Accordo del 18.2.1984 fra la Santa Sede e la Repubblica Italiana che apporta modificazioni al Concordato Lateranense il cui art. 9, c. 2, prevede: “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.
Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento.
All’atto dell’iscrizione, gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
Il principio secondo cui spetta agli studenti o ai loro genitori il diritto di avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, senza che tale scelta comporti alcuna forma di discriminazione, è confermato inoltre dall’art. 310, c. 2, D. Lgs. n. 297/1994, recante il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, secondo cui: “Ai sensi dell’articolo 9 dell’accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, ratificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121, nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno, nelle scuole di ogni ordine e grado, il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica.
All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori esercitano tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.
Il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado è esercitato, per ogni anno scolastico, all’atto dell’iscrizione non d’ufficio, dai genitori o da chi esercita la potestà nell’adempimento della responsabilità educativa di cui al’articolo 147 del codice civile”.
Nell’ambito di tale assetto normativo sono intervenute talune circolari ministeriali le quali prescrivono le modalità con le quali assicurare che la scelta di non avvalersi nell’insegnamento religioso e di avvalersi di insegnamento facoltativo non dia luogo a discriminazioni. In particolare la circolare del Ministero dell’Istruzione del 3.5.1986 n. 129 prevede che entro il 10 giugno di ogni anno siano consegnati ai genitori determinati moduli sui quali gli stessi possono compiere la scelta suddetta; essa precisa che “le attività di cui all’allegato B (quelle alternative, n.d.r.) sono definite, entro il primo mese dall’inizio delle lezioni, dai Consigli di interclasse sentiti, nell’esercizio della responsabilità educativa, i genitori interessati o chi esercita la potestà tenendo conto di quanto esplicitato nello stesso allegato (…) dette attività sono svolte dai docenti, compresi quelli appartenenti alle dotazioni organiche aggiuntive, nell’ambito dell’orario di servizio (…) i direttori didattici avranno cura di assicurare che nell’applicazione delle disposizioni in oggetto si operi nel pieno rispetto della scelta delle famiglie e non dando luogo ad alcuna forma di discriminazione (…) agli alunni delle scuole elementari che non si avvalgono di attività di insegnamento della religione cattolica la scuola assicura attività scolastiche integrative (…)”. Analoghe prescrizioni sono date dalla circolare dello stesso ministero del 15.1.2009.
Si deve ritenere che le prescrizioni indicate, pur non avendo rango normativo, vincolino la discrezionalità della p.a. che deriva dalle norme di cui all’Accordo del 18.2.1984 e dal D.Lgs. n. 297/1994. Dette prescrizioni, più precisamente, costituiscono atti con i quali la pubblica amministrazione vincola la propria attività nel senso di rendere obbligatoria l’offerta dei corsi alternativi all’insegnamento religioso. Da esse si trae la considerazione per cui sussiste un vero e proprio obbligo per la p.a. di attivare gli insegnamenti alternativi a fronte del quale si pone una posizione di diritto soggettivo dello studente di poter frequentare detti corsi.
Né si può condividere l’argomento utilizzato nell’ordinanza reclamata secondo cui le suddette prescrizioni attribuirebbero un margine di discrezionalità alla p.a. nell’istituzione degli insegnamenti alternativi. Anche laddove la circolare richiama la programmazione dei consigli di classe, sentiti i genitori, non si ha discrezionalità nel se istituire o meno i corsi alternativi, ma solo nelle modalità attraverso le quali deve giungersi alla loro istituzione.
A tale conclusione induce non soltanto la lettura delle norme richiamate ma anche la recente evoluzione della giurisprudenza amministrativa. Al riguardo la recentissima sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato, n. 2749/2010, afferma espressamente che l’istituzione degli insegnamenti alternativi deve considerarsi obbligatoria per la scuola.
Afferma precisamente il giudice amministrativo che “nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di non fare nulla…la mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere sulla libertà religiosa dello studente o della famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost…”.
La pronuncia del Consiglio di Stato interviene sulla legittimità delle ordinanze ministeriali relative alla disciplina dell’attribuzione dei crediti scolastici e afferma che l’insegnamento religioso, così come quello alternativo, diviene obbligatorio una volta scelto. Secondo il giudice amministrativo la libertà di scelta dell’insegnamento religioso o di quello alternativo e quindi la facoltatività dei suddetti insegnamenti non incide sul fatto che gli stessi divengano obbligatori una volta scelti, con la conseguenza che non vi sarebbe alcuna ragione per escludere detti insegnamenti dalla valutazione scolastica dello studente.
Si può concordare o meno con tale decisione, specie considerando che non tiene in debito conto della posizione dell’alunno che non intenda avvalersi né dell’insegnamento religioso né di quello alternativo, la cui libertà di scelta potrebbe essere condizionata dalla consapevolezza per cui la sua opzione può essere per lui penalizzante rispetto alla scelta di un insegnamento religioso o alternativo dal quale trarre crediti formativi. Tale profilo, però, non interessa in questa sede, bensì interessa la statuizione del Consiglio di Stato che considera un obbligo per la p.a. l’attivazione degli insegnamenti alternativi. Da essa, infatti, non si può prescindere se si considera che rappresenta il diritto vivente in materia cui anche la pubblica amministrazione mostra di adeguarsi (v. la circolare in data 23.7.2010 con la quale il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca richiama espressamente la necessità di assicurare l’insegnamento dell’ora alternativa alla religione cattolica agli alunni interessati).
L’obbligo per la p.a. di attivare i corsi alternativi a quello religioso, una volta scelto tale corso, non incide comunque sul carattere facoltativo dei suddetti insegnamenti. Infatti, se vi fosse un obbligo per lo studente di seguire gli insegnamenti alternativi si creerebbe una situazione di condizionamento nella libertà di scelta che arrecherebbe una lesione alla sua libertà di religione; si avrebbe la lesione di quello stato soggettivo di non obbligo in cui si trova lo studente prima di compiere la scelta di seguire un insegnamento alternativo.
Come ha statuito la Corte costituzionale con sentenza n. 203/1989 solo l’esercizio del diritto di avvalersi dell’insegnamento religioso crea l’obbligo di frequentarlo (analogo ragionamento può essere seguito con riferimento a coloro che scelgono i corsi alternativi).
In conclusione si tratta di insegnamenti facoltativi ma che devono essere offerti obbligatoriamente dalla p.a. per rendere effettiva la scelta compiuta dallo studente.
Si deve ritenere, quindi, che nel caso di specie, a fronte dell’obbligo per l’istituto scolastico di attivare il corso alternativo si ponga il diritto soggettivo di ZZ alla frequentazione del suddetto corso.
Né del resto si può ritenere che la p.a. disponga di discrezionalità in base all’argomento per cui l’attivazione dei corsi alternativi sarebbe subordinato alla disponibilità di mezzi economici da parte della p.a. La disponibilità economica dell’amministrazione, infatti, non influisce sulla posizione giuridica soggettiva della persona, che rimane tale pur a fronte dell’inesistenza di mezzi economici.
Peraltro nel caso in questione è documentato (v. doc. 4) lo stanziamento in favore dell’ufficio scolastico regionale per il Veneto di una somma (euro 26.475.413) destinata alle “spese per l’insegnamento della religione cattolica e per le attività alternative all’insegnamento della religione cattolica, con l’esclusione dell’irap e degli oneri sociali a carico dell’amministrazione”. La scuola, dunque, avrebbe avuto l’onere di programmare l’utilizzo di parte di questi fondi per l’attivazione dei corsi alternativi, ciò che non ha fatto.
Ritenuta la configurabilità in termini di diritto soggettivo della posizione giuridica di ZZ occorre ora verificare se il comportamento posto in essere dalla scuola possa determinare nei suoi confronti una discriminazione.
Al riguardo si deve ricordare come il concetto di discriminazione sia volutamente ampio. L’art. 43 D. Lgs. n. 286/1998 prevede che sia discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.”
Si deve poi considerare la nozione di discriminazione data dalle Direttive 2000/43/CE del 29 giugno 2000 e 2000/78/CE del 27 novembre 2000, recepite nel nostro ordinamento rispettivamente con D. Lgs. nn. 215 e 216 del 2003. In particolare l’art. 2 D. Lgs. n. 216/2003 prevede che “…per principio di parita’ di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’eta’ o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, cosi’ come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per eta’ o per orientamento sessuale, una persona e’ trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare eta’ o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
In base a tale concetto normativo di discriminazione è pertanto innanzitutto da considerarsi discriminatoria la condotta che comporti un trattamento differenziato per i motivi appena menzionati, sia quando venga posta in essere una discriminazione diretta (vale a dire quando una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto lo sarebbe in una situazione analoga e ciò in ragione della sua appartenenza ad una diversa razza, etnia, religione, etc…), sia quando la differenziazione che causa pregiudizio sia conseguenza dell’applicazione di criteri formalmente “neutri” ma che oggettivamente svantaggiano o discriminano una certa categoria di persone caratterizzate dalla medesima appartenenza razziale, etnica, nazionale, etc… (vale a dire una discriminazione indiretta).
In base al concetto ampio di discriminazione che deriva dall’assetto normativo indicato si deve ritenere che la scuola “A. Vivaldi” abbia posto in essere un comportamento che indirettamente ha prodotto l’effetto di discriminare ZZ nell’esercizio del diritto all’istruzione ed alla libertà di religione. Più precisamente, il primo periodo, dall’inizio dell’anno scolastico sino al 12.11.2009, nel quale la bambina ha dovuto assistere all’ora di religione cattolica integra sicuramente una lesione della libertà di religione della stessa essendo incisa la libera scelta di non seguire l’insegnamento religioso. Non può seriamente ritenersi che tale libertà non sia stata incisa perché, come affermato dalla p.a., la stessa sarebbe stata libera di compiere attività alternative nella classe nella quale era impartita l’ora di religione.
Nel secondo periodo, nel quale ZZ è stata collocata presso una classe parallela durante l’orario nel quale nella sua classe si teneva l’ora di religione, ella ha comunque subito una discriminazione rispetto ai propri colleghi: mentre, infatti, questi hanno potuto fruire di un apporto conoscitivo di tipo confessionale, rispondente alle proprie convinzioni religiose, ZZ non ha fruito di alcun apporto conoscitivo, determinandosi così una limitazione del suo diritto all’istruzione tutelato dall’art. 34 Cost.
Non si può ritenere che l’aver collocato la bambina presso una classe parallela inerisca alle normali modalità con cui i dirigenti scolastici fanno fronte alle assenze dal servizio di insegnanti che riguardano anche le altre materie, così che quanto accaduto rientrerebbe nella normale fisiologia con la quale la scuola affronta i problemi organizzativi. Nel caso di specie, infatti, la scuola non ha semplicemente collocato ZZ in via temporanea presso un’altra classe in attesa che fosse disponibile un’insegnante destinata al corso alternativo, ma ha adottato una soluzione definitiva con la quale ha inteso rispondere alla scelta di ZZ (rectius, dei suoi genitori) di seguire un corso alternativo all’ora di religione. Ciò ha comportato la discriminazione descritta, la quale, configurandosi come indiretta in base alla normativa richiamata, non richiede la presenza di alcun elemento soggettivo. Ciò che conta è che l’effetto fattuale e concreto del comportamento della scuola sia stato quello di inibire la libertà di religione e il diritto di istruzione di ZZ.
Il reclamo deve dunque essere accolto e per l’effetto si deve ordinare, ex art. 44 D. Lgs. n. 286/1998, alla la p.a. resistente la cessazione del comportamento discriminatorio.
Occorre, inoltre, verificare se il descritto comportamento illegittimo della scuola sia idoneo a configurare un danno non patrimoniale subito da ZZ e quindi una responsabilità risarcitoria della p.a.
A tal fine questo collegio aderisce alla recente impostazione dogmatica recepita sia dalla Corte di Cassazione che dalla Corte Costituzionale.
In particolare la Corte di Cassazione nella sentenza 4712/08 ha definito il danno alla persona come inserito in una struttura bipolare, ovvero danno patrimoniale e non patrimoniale; a sua volta pentapartita, nel senso che il danno patrimoniale si suddivide nelle forme del danno emergente e del lucro cessante; mentre quello non patrimoniale in danno morale, danno biologico e danno c.d. esistenziale.
Mentre non sorgono particolari difficoltà interpretative in punto di danno patrimoniale, si impone qualche chiarimento in relazione a quello non patrimoniale, anche tenuto conto della recente decisione a Sezioni Unite resa dalla Cassazione, n. 26972/2008, in esito ai quesiti rivolti alle medesime sezioni dalla sentenza appena sopra richiamata.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 233/2003 ha ritenuto che “può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 c.c. si identificherebbe con il c.d. danno morale soggettivo. In due recentissime pronunce (Cass. 31.5.2003 nn. 8827 e 8828) che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, viene, infatti, prospettata con ricchezza di argomentazioni – nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale – un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina e in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesioni di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. Quindi “si deve ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione di ‘danno non patrimoniale’ inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona e non più solo come ‘danno morale soggettivo’ (così Cass. 31.5.2003 nn. 8827 e 8828).
Da ultimo, nel ribadire tale orientamento con decisione a sezioni unite la Corte ha precisato “Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”.
Se dunque presupposto del danno non patrimoniale è la lesione di valori inerenti alla persona costituzionalmente protetti, trova in esso indubbiamente collocazione la vecchia figura del danno esistenziale, elaborata da dottrina e giurisprudenza per dare ristoro ai danni incidenti sulla sfera esistenziale della persona. Questi danni, in base alla statuizione delle citate sezioni unite della Cassazione, possono oggi trovare ristoro purché comportino una lesione apprezzabile del valore costituzionale della persona, in un’ottica di contemperamento fra la tolleranza a determinate tipologie di danni c.d. bagattelari, dovuta in base al costume sociale, e la solidarietà, che impone il risarcimento dei danni incidenti seriamente sul valore persona. In questo senso, sebbene non si possa a rigore parlare di danno in re ipsa, tuttavia la lesione del valore costituzionale della persona rende applicabile la presunzione di un danno che si riverbera sulla persona offesa.
Nel caso di specie è accertata la lesione di due valori costituzionale della persona (la libertà di religione ed il diritto all’istruzione), è allegato dai reclamanti e non contestato dall’amministrazione pubblica il fatto produttivo del danno, identificabile nel censurato comportamento della scuola, donde si deve presumere che si sia prodotto un danno che ha inciso sulla persona di ZZ. Che si tratti di una lesione seria dipende dalle stesse modalità nelle quali si è tradotto il comportamento della p.a. e dalla durata dello stesso per l’intero anno scolastico. Per un intero anno scolastico, infatti, ZZ non è stata posta in grado di esercitare pienamente due diritti fondamentali della persona, essendo stata dapprima tenuta ad assistere all’insegnamento dell’ora di religione e in seguito collocata in altre classi parallele.
Non è di ostacolo al risarcimento del danno non patrimoniale la mancanza di un elemento soggettivo attribuibile alla p.a. La Corte di Cassazione con la nota sentenza, resa a sezioni unite, n. 500/1999 (confermata dalla successiva giurisprudenza della S.C.: v., ad esempio, sentenza n. 21850/2007, sentenza n. 4252/2007) ha statuito al riguardo che la colpa della p.a. deve essere intesa non come colpa soggettiva del singolo funzionario agente, ma come colpa di apparato della p.a., configurabile ove l’attività amministrativa sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.
E’ indubbio, per quanto già detto, che il comportamento della scuola debba qualificarsi non solo come non imparziale ma anche come posto in violazione delle norme che la obbligano all’attivazione dei corsi alternativi.
Sussistono dunque tutti i presupposti per il risarcimento del danno non patrimoniale subito da ZZ che deve essere necessariamente risarcito in via equitativa dal collegio, in base alle norme di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. Si ritiene che sia equo nel caso di specie risarcire una somma di euro 1.500,00.
In considerazione delle peculiarità delle questioni trattate sussistono gravi ragioni per compensare le spese di lite della presente fase di reclamo e del precedente procedimento.
P.Q.M.
accoglie il reclamo e, accertato il carattere discriminatorio del comportamento posto in essere dall’XI Istituto Comprensivo “A. Vivaldi” ordina allo stesso ed al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca la cessazione del comportamento stesso; condanna l’XI Istituto Comprensivo “A. Vivaldi” ed il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca al pagamento della somma di euro 1.500,00 in favore di XX e YY; compensa fra le parti le spese di lite.
Padova, 30.7.2010
Il Giudice rel. dd est. Dr. Gianluca Mancuso
Il Presidente Dr. Elisa Rubbis