Sulla discriminazione dei disabili nell’accesso ai servizi extrascolastici.

Commento ad ordinanza Tribunale di Ravenna del 14.06.12

 

I genitori di un minore affetto da sindrome di Down ricorrevano al Tribunale di Ravenna lamentando il carattere discriminatorio della non ammissione del loro figlio al servizio extra scolastico, in quanto la madre non risultava impegnata in attività lavorativa. Individuavano la fonte del trattamento discriminatorio nella divergenza di disciplina tra il “Regolamento per la gestione del tempo extrascolastico per minori disabili”, che riserva il servizio unicamente alle famiglie in cui entrambi i genitori svolgono attività lavorativa, e il “Regolamento del servizio di pre e post scuola”, che destina prioritariamente il servizio ai figli di genitori occupati in attività lavorative, senza però escludere tassativamente quelli in cui solo un genitore lavora.

Il primo regolamento è adottato dall’ASP, ente gestore dei servizi sociali del Comune di Ravenna, il secondo direttamente dal Comune.

I ricorrenti evidenziavano che mentre per i minori normodotati il Comune, soddisfatte in via prioritaria le richieste delle famiglie con entrambi i genitori occupati,  può accogliere nel servizio anche i figli in cui un genitore non lavora, nel caso di minori disabili questa possibilità viene, invece, esclusa dal Regolamento adottato dall’ASP.

La norma giuridica invocata al fine di porre rimedio alla lamentata discriminazione è l’art. 2 della L.  67/2007, i cui primi tre commi così recitano:

Il principio di parità di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità.

Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.”

Gli enti convenuti in giudizio, Comune e Azienda dei Servizi alla Persona, eccepivano la non equiparabilità dei due diversi regolamenti in quanto aventi ad oggetto servizi con contenuto e finalità diverse. Mentre il servizio di pre e post scuola erogato dal Comune si sostanzia in un’attività di accoglienza e vigilanza nei confronti degli alunni della scuola primaria e si concreta in attività ludiche e di animazione, con un rapporto di educatore/minori utenti pari a 1/25; il servizio previsto per i minori disabili è un servizio educativo-assistenziale personalizzato, con un rapporto educatore/minori che può essere anche pari a 1/1.

La circostanza che il secondo servizio sia riservato unicamente alle famiglie in cui entrambi i genitori sono impegnati in attività lavorative ha la finalità di assicurare assistenza solo a quelle più bisognose, in quanto impossibilitate ad assistere i figli. Dunque la parziale diversità dei requisiti di accesso vengono giustificate in quanto “ragionevoli distinzioni” dettate non già dalla volontà di discriminare qualcuno, ma dalla diversa complessità ed onerosità dei servizi.

Il Tribunale adito, con l’ordinanza in commento, accoglie l’impostazione dei convenuti osservando che “il Regolamento del Servizio Sociale ha finalità diverse e più ampie di quelle del Regolamento comunale”  in quanto “considera il bisogno di integrazione sociale e di sviluppo dei minori disabili nella sua totalità, cioè non limitatamente alla presenza scolastica, come invece fa il Regolamento comunale”. Pertanto non ravvisa alcuna discriminazione nella maggior selettività delle regole di accesso al servizio “essendo più vasta la organizzazione di mezzi e di persone necessaria alla gestione del tempo extrascolastico dei minori disabili ai fini della loro più completa inclusione”.

La stringata motivazione del provvedimento giudiziale non consente però di comprendere appieno le ragioni della valutazione relativa alla diversa finalità dei due regolamenti, onde giustificare adeguatamente una circostanza, altrimenti, anomala e cioè la regolamentazione del medesimo servizio in modo diverso a seconda del grado di “abilità” del bambino (normodotato o  diversamente abile).

In secondo luogo occorre tener presente che la cornice giuridico-culturale di riferimento di tutto il sistema normativo a tutela dei disabili, costituito dalla “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità”, ratificata in Italia con L. 18/2009, impone agli Stati di assumere gli “accomodamenti ragionevoli” per realizzare il diritto all’uguaglianza, cioè quegli interventi, per dirla come si esprime l’art. 3 della nostra Costituzione, che servano a “rimuovere gli ostacoli” che limitano di fatto l’uguaglianza.

Poiché proprio la mancata adozione degli “accomodamenti ragionevoli” costituisce di per sé una discriminazione vietata, appare poco convincente la  motivazione del provvedimento giudiziale, laddove giustifica la mancata discriminazione con la circostanza della necessità di una “più vasta organizzazione di mezzi e di persone necessaria alla gestione del tempo extrascolastico dei minori disabili”.

L’art. 2 della citata Convenzione ONU, nel fornire la definizione di “accomodamento ragionevole”, fa infatti riferimento a tutte quelle modifiche e adattamenti appropriati e funzionali ad assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio dei diritti su base di eguaglianza con gli altri, purchè non siano tali da richiedere “un carico sproporzionato o eccessivo”.

Ritengo che l’assenza di un’indagine sulla quantità di risorse umane e strumentali necessarie ad assicurare un’assistenza pre/post scolastica adatta ad assicurare a quel minore disabile un servizio in condizioni di parità con gli altri alunni, possa integrare una carenza motivazionale del provvedimento giudiziale, poiché la valutazione di “maggior vastità” dell’organizzazione necessaria alla gestione del servizio appare disancorata dal parametro della eccessività e sproporzione, solo in presenza dei quali il maggior sforzo organizzativo della pubblica amministrazione può considerarsi come non doveroso.

Avv. Gianluca Dradi