Dopo gli entusiasmi per il deposito, in data 26/11/14, della sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha accertato la condotta abusiva dello Stato italiano in materia di precariato scolastico (concretizzatasi in un’infinita e pretestuosa reiterazione di contratti a tempo determinato), da più parti ci si interroga circa la sussistenza di eventuali oneri a carico dei lavoratori interessati onde poterne godere i benefici.
In particolare, taluni sindacati stanno già divulgando delle istanze da inoltrare a tutte le ex scuole di servizio per ottenere la certificazione del carattere vacante del posto a suo tempo occupato (cioè la mancanza di titolare); con ciò ritenendo di poter provare la mancanza di ragioni temporanee di sostituzione e, quindi, il carattere abusivo del termine apposto al contratto..
Tale procedura potrebbe rilevarsi, tuttavia, del tutto inutile e, anzi, controproducente rispetto al buon esito del contenzioso intrapreso o da intraprendere.
Anzitutto, bisogna fare attenzione a non avallare una lettura della sentenza come, a priori, ostativa al riconoscimento dei diritti dei precari utilizzati, magari anche oltre il decennio, su posti non vacanti.
Difatti, le conclusioni della Corte di Giustizia, dichiarative dell’abusività della condotta posta in essere dallo Stato italiano, fanno espresso riferimento ai soli posti vacanti soltanto perché sotto tale specifico profilo era stato richiesto il suo intervento da parte della Corte Costituzionale (quest’ultima a sua volta in tal senso mossa dalle specifiche fattispecie poste al suo esame e dalla specifica formulazione delle relative questioni di costituzionalità da parte dei giudici di merito).
E a questo riguardo la Corte di Giustizia ha rimarcato che anche quella che astrattamente potrebbe rappresentare una causa di giustificazione per l’apposizione del termine contrattuale – nel caso specifico, l’impossibilità di coprire da subito i posti vacanti mediante immissioni in ruolo, attesi i necessari tempi tecnici per bandire ed espletare un nuovo concorso – può, di fatto, essere piegata a fini abusivi: “Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, il solo fatto che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere giustificata da una «ragione obiettiva» ai sensi di tale disposizione non può essere sufficiente a renderla ad essa conforme, se risulta che l’applicazione concreta di detta normativa conduce, nei fatti, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
In particolare, nel caso rimesso al suo esame, l’organo di giustizia europeo ha ritenuto che la mancata previsione di tempi certi per l’espletamento dei concorsi e, allo stesso tempo, la disponibilità dell’ulteriore strumento di reclutamento individuabile nelle graduatorie ad esaurimento (già graduatorie permanenti) dimostrino, di per sé, la pretestuosità della addotta causa giustificativa di cui trattasi.
Il medesimo assioma argomentativo non può, tuttavia, che valere per la diversa ragione giustificativa astrattamente individuabile nelle esigenze sostitutive di personale di ruolo temporaneamente assente; quindi con riferimento agli incarichi di supplenza conferiti su posti non vacanti.
Anche in tal caso, se le esigenze sostitutive, nel loro complesso considerate, si prolungano per anni e anni (anzi, decenni) ciò diviene prova inconfutabile di un pretestuoso sottodimensionamento dell’organico e, quindi, del carattere abusivo della relativa condotta.
In sostanza, se l’Amministrazione scolastica sa con certezza di necessitare, fisiologicamente, di un certo contingente di personale per le supplenze (a causa di malattie, gravidanze, aspettative ed altri motivi di assenza del personale di ruolo) non vi è ragione di non istituzionalizzare la relativa dotazione organica aggiuntiva (costringendo, invece, tantissimi lavoratori ad un infinito stato d’incertezza occupazionale); che, poi, è quello che finalmente (e, non a caso, dopo i pressanti rumors provenienti dal Lussemburgo) sembra si sia indirizzati a fare con la previsione del c.d. organico funzionale.
D’altro canto, è la stessa Corte ad avere stigmatizzato in generale, nella sentenza del 26 novembre, l’eccessiva presenza di personale precario nelle scuole italiane: “A seconda degli anni e delle fonti, risulta che circa il 30%, o addirittura, secondo il Tribunale di Napoli, il 61%, del personale amministrativo, tecnico e ausiliario delle scuole statali sia impiegato con contratti di lavoro a tempo determinato e che, tra il 2006 e il 2011, il personale docente di tali scuole vincolato da siffatti contratti abbia rappresentato tra il 13% e il 18% di tutto il personale docente di dette scuole. A tale riguardo, va ricordato che, sebbene considerazioni di bilancio possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
In un altro passaggio della pronunzia (par.112) viene, poi, ricordato come le disposizioni europee prevedano efficaci strumenti di limitazione del precariato, mediante la previsione di un periodo massimo di lavoro a tempo determinato ovvero di un numero massimo di rinnovi contrattuali (a prescindere, perciò, dalla tipologia di posto o dalle esigenze sottese alla sua copertura); ciò che, tuttavia, la Corte ha accertato non essere stato attuato dallo Stato italiano.
Quindi, è il sistema di reclutamento del personale scolastico, nel suo complesso, ad essere stato censurato dai Giudici di Lussemburgo; con rilievi che, senz’altro, travalicano la specifica casistica dei posti vacanti occasionalmente rimessa al suo esame.
L’insussistenza di un limite di tutela confinato ai soli posti vacanti si ricava, peraltro, anche da precedenti sentenze della Corte europea. Basta ricordare la sentenza Kukuk del 26/1/12, ove è stato chiaramente rimarcato come, ove anche sussistano ragioni di carattere sostitutivo (quindi, in caso di posti non vacanti), il carattere abusivo o meno della relativa condotta datoriale va valutato alla luce di “tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro”.
E anche la Corte Costituzionale italiana, ove tornerà il contenzioso dopo la pronunzia europea del 26 novembre, in tema di ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive, ha sempre preteso che lo stesso si esplichi “entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore” (ex multis, Corte Cost. sentenza 214/09). Ciò che non avviene nel caso del precariato scolastico, per il quale non è previsto alcuno specifico limite percentuale rispetto al personale di ruolo.
Ma, soprattutto, tornando alla necessità e meno di richiedere la certificazione della tipologia di posto su cui si è stati occupati, occorre rilevare che – secondo il consolidato orientamento dei giudici nazionali (ivi comprese la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale) e della Corte di Giustizia Europea, ma, ancor prima, sulla scorta di specifiche disposizioni interne (ad esempio, l’art.1 comma 3 D.Lgs. 165/01) – per la validità del termine finale del rapporto di lavoro non basta che sussista una (effettiva) ragione giustificatrice ma la stessa deve, altresì, essere chiaramente e specificamente indicata in contratto (per evidenti ragioni di trasparenza e di tutela dell’affidamento dei lavoratori).
Se, quindi, il docente (o A.T.A. che sia) è in possesso di contratti di lavoro ove non si fa espresso riferimento alla finalità di sostituzione di un altro dipendente, lo stesso non è tenuto a dimostrare alcunché.
Invece, la richiesta di certificazione alle scuole, oltre ad ingolfare le segreterie e a rallentare inevitabilmente il corso dei giudizi (tra omissioni, dinieghi e risposte ambigue), ingenererebbe, soprattutto, il pericoloso equivoco che debba essere il lavoratore a fornire la prova (che spesso sarebbe una vera e propria probatio diabolica) circa la tipologia di posto su cui è stato occupato e la sussistenza o meno di ragioni sostitutive a carattere eccezionale e temporaneo.
Avv. Fabio Rossi