Cassazione civile sez. lav., 03/10/ 2023, n. 27878
Importante precisazione della Corte sulla vexata quaestio della retribuibilità delle ore di straordinario nel pubblico impiego.
Com’è noto, la giurisprudenza è sempre stata molto rigorosa in ordine al diritto al pagamento dello “straordinario”, in particolare nel caso di rapporto di pubblico impiego.
Oltre ovviamente alla prova di aver svolto l’attività, la giurisprudenza richiede anche l’ulteriore prova che la prestazione sia stata formalmente richiesta dal datore di lavoro.
Spesso, però, la richiesta di attività aggiuntiva avviene in modo informale, senza dunque un “ordine scritto”, col risultato che ben difficilmente il dipendente potrà vedersi riconosciuto il pagamento per l’attività svolta.
La sentenza in commento sembra segnare un importante passo a tutela del dipendente.
Secondo la Corte, qualora l’attività sia stata richiesta dal datore di lavoro oltre il debito orario ed integri gli estremi del lavoro straordinario, il personale deve essere specificamente compensato.
“Non è di ostacolo a siffatto esito la mancanza, come nella presente controversia, di una autorizzazione formale o di uno o più atti separati che ne disciplinino nel dettaglio l’esecuzione ed il compenso. In simili casi, per autorizzazione si intende il fatto che le prestazioni siano state svolte non “insciente o prohibente domino”, ma con il suo consenso, che può anche essere implicito e giustifica il pagamento del lavoro straordinario”.
Secondo la Corte, “nel settore del pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario, spetta al lavoratore, che abbia posto in essere una prestazione rientrante nel normale rapporto di lavoro, anche ove la richiesta autorizzazione sia illegittima o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost. prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario, se autorizzato nei termini sopra menzionati, con conseguente applicabilità dell’art. 2126 c.c.”
Sul principio del legittimo affidamento.
La Corte si è soffermata sulla problematica relativa al principio del “legittimo affidamento”, osservando che in linea di massima tale affidamento, quant’anche sussistesse, non può costituire di per sé titolo per l’attribuzione di somme a carico della P.A.
Tuttavia, ciò non può condurre a negare ogni rilievo all’attività svolta dall’intimato e a sostenere che, in assenza dell’adozione degli atti presupposti per l’esecuzione delle prestazioni, “i dipendenti che le hanno rese non possano agire direttamente per il pagamento di quanto ritengono a loro spettante”.
Certamente – continua la Corte- vi sono, nel nostro ordinamento, situazioni in cui la nascita del diritto a percepire parte della retribuzione è condizionata non dalla sola prestazione dell’attività, bensì anche dall’adozione di specifici atti od autorizzazioni,
Tuttavia, ciò non può tradursi nel negare la retribuzione del lavoratore che abbia prestato l’attività oggetto di causa solo perché il progetto ed il “separato atto” di cui sopra non risultano essere stati adottati.
La regola secondo cui le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo che non le rispetti è invalido e le rende ripetibili, “non concerne automaticamente tutte le ipotesi nelle quali la prestazione, che rientri fra quelle tipicamente svolte dal dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro già costituito, è fatta eseguire dalla P.A. datrice di lavoro, pur in assenza dei requisiti di validità della stessa e in violazione di norme di legge o di contrattazione collettiva”.
La disposizione di cui all’art. 2126 c.c.
Secondo la Corte, occorre valorizzare quanto previsto dall’art. 2126 c.c., ricordando quanto osservato in proposito dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 8/2023[1].
Si legge in detta sentenza:
“Il fondamento di tale speciale disciplina si rinviene, questa volta, nella causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta. La peculiare protezione di simile causa attributiva, che si pone in termini sinallagmatici rispetto alla retribuzione indebita, giustifica, pertanto, sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo, a dispetto della nullità o dell’annullamento (totale o parziale) del contratto di lavoro e persino in presenza di una illiceità dell’oggetto o della causa, ove siano state violate norme poste a tutela del lavoratore.
L’art. 2126 cod. civ. costituisce, dunque, un presidio contro pretese restitutorie avanzate dal datore di lavoro, compresa la pubblica amministrazione (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 5 novembre 2021, n. 32263 e 31 agosto 2018, n. 21523), ma a condizione che l’indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 23 novembre 2021, n. 36358)” – Corte Costituzionale, n. 8/2023.
Quali attività potranno essere retribuite?
Secondo la Corte, trattandosi di attività che rientra nell’ambito del rapporto lavorativo, qualora le attività sia stata svolta durante l’orario lavorativo, il dipendente non potrà avanzare pretese.
“Al contrario, qualora detta attività sia stata richiesta dal datore di lavoro oltre il debito orario ed integri gli estremi del lavoro straordinario, il personale deve essere specificamente compensato”.
“Non è di ostacolo a siffatto esito la mancanza di un’autorizzazione formale o di uno o più atti separati che ne disciplinino nel dettaglio l’esecuzione ed il compenso”.
Precisa la Corte: “per autorizzazione si intende il fatto che le prestazioni siano state svolte non insciente o prohibente domino, ma con il suo consenso, che può anche essere implicito e giustifica il pagamento del lavoro straordinario”.
In pratica, prosegue la Corte, “ nel settore del pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario, spetta al lavoratore, che abbia posto in essere una prestazione rientrante nel normale rapporto di lavoro, anche ove la richiesta autorizzazione sia illegittima o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost. prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario, se autorizzato nei termini sopra menzionati, con conseguente applicabilità dell’art. 2126 c.c
L’autorizzazione “implicita”.
Quali forme deve avere l’autorizzazione? E’ necessaria un’autorizzazione formale?
La Corte- come si è visto in precedenza- va al di là del mero aspetto formale, ricordando che l’attività lavorativa oltre il debito orario comporta il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso[2], è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art.2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica che determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione (Cass., Sez. L, n. 18063 del 23 giugno 2023).
“Il consenso datoriale, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c. Nella presente controversia è incontestato che sia stata resa una prestazione rientrante nell’ambito del normale rapporto di lavoro e non risulta che sia stata posta in essere insciente o prohibente domino.
La ricadute della pronuncia nel settore scolastico.
La controversia in esame riguardava un dipendente della Regione Puglia.
Tuttavia, il principio di diritto affermato non può non riguardare l’intero pubblico impiego, ivi compreso il comparto scuola.
Non sono affatto rari i casi in cui il personale si trova impegnato in attività aggiuntive, ma – all’atto della richiesta di pagamento- si sente rispondere che non aveva ricevuto alcun ordine scritto.
Ancora più frequenti sono i casi in cui il personale Ata viene impiegato “oltre l’orario giornaliero” ex art. 54, comma 4, CCNL 2006/09.
Com’è noto, in questi casi, il dipendente può richiedere il recupero delle ore “anche in forma di corrispondenti ore e/o giorni di riposo compensativo”, oppure la retribuzione, che la scuola dovrà in ogni caso corrispondere, qualora siano trascorsi oltre tre mesi dalla fine dell’anno scolastico.
Si sono appunto verificati casi in cui- con l’avvicendamento dei Dirigenti Scolastici- il D.S. subentrato non ha inteso riconoscere il diritto al compenso (pur essendo incontestato lo svolgimento di ore aggiuntive), per mancanza di un’autorizzazione scritta.
Autorizzazione che – a detta della Corte- non è necessaria, qualora l’attività non sia stata resa insciente o prohibente domino.
[1] “Il diritto a vedersi retribuita la prestazione resa, se rientrante nell’ordinario rapporto di lavoro ed autorizzata, trova tutela anche nella recente sentenza n. 8 del 2023 della Corte costituzionale, che individua nell’art. 2126 c.c. la disposizione che giustifica la pretesa a conseguire il corrispettivo per la prestazione fornita di fatto, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta. In quest’ottica, l’art. 2126 c.c. va letto alla luce degli artt. 35 e 36 Cost., in modo da rimuovere ogni ostacolo al pagamento di prestazioni comunque rese con il consenso del datore di lavoro, anche pubblico, seppure in contrasto con previsioni della contrattazione collettiva, con le regole autorizzatorie per esso previste o con i vincoli di spesa” – Corte di Cassazione, n. 27878/2023, cit..
[2] Dunque, ai fini del riconoscimento della pretesa del dipendente, è necessario e sufficiente che il datore di lavoro sia a conoscenza dello svolgimento dell’attività e non abbia avanzato alcuna obiezione o proibizione in proposito.