Negli ultimi anni, migliaia di cittadini italiani, sovente “precari della scuola” che esercitano la professione d’insegnante, sono stati costretti, loro malgrado, a recarsi in alcuni Paesi dell’Unione europea per conseguire l’abilitazione all’insegnamento sia sulla materia che sul sostegno.
In queste brevi riflessioni, ci si vuole soffermare e celermente analizzare l’abilitazione conseguita sulla materia per poi eventualmente, trattare in sede separata, anche l’altro aspetto increscioso e non meno importante, concernente l’abilitazione sul sostegno. In precedenza si è usata l’espressione loro malgrado, tant’è, che nella pratica si è trattato di una vera e propria coercizione atteso che, nel nostro Paese non sono stati più attivati le scuole di abilitazione rectius i percorsi formativi/abilitanti quali le c.d. Siss e successivamente i Tfa.
Il panorama è mutato nel 2018 allorché il Decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 59 (in attuazione della legge n. 107/2015, “la buona scuola”) ha imposto un nuovo percorso per tutti gli aspiranti docenti della scuola secondaria ovvero il c.d. Fit (Formazione iniziale e tirocinio).
Dunque, in buona sostanza, l’obbligo formativo finalizzato all’abilitazione viene imposto dalla normativa vigente e risulta pertanto essere condicio sine qua non. Nella fattispecie, molti cittadini italiani negli anni addietro sono stati costretti a oltrepassare i confini nazionali e recarsi in Nazioni quali la Spagna, la Romania, la Bulgaria etc etc. per conseguire il “bene della vita”.
Nell’ambito di tale situazione diventa rilevante esaminare, sine ira ac studio, la normativa europea e quindi volgere l’attenzione sulle fonti primarie e secondarie dell’Unione. La ratio giustificatrice della nascita dell’Unione europea risiede nel fatto che si è voluto realizzare, sin da subito, un mercato interno nel quale veniva assicurata la libera circolazione delle persone tra gli Stati membri. Quindi, con la libertà si è intesa la facoltà di esercitare, in qualità lavoratore autonomo ovvero con vincolo di subordinazione, l’attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello nel quale il cittadino dell’Unione abbia conseguito la relativa qualifica professionale. La circolazione delle persone è collegata alla possibilità di far valere in qualsiasi Stato UE la professionalità acquisita nello Stato d’origine e in tal guisa l’Unione europea ha adottato direttive in tal senso perché ci fosse e soprattutto, venisse applicato, il reciproco riconoscimento di certificati, master, diplomi e titoli professionali (art. 53 TFUE).
Per inciso e a sommesso parere, il legislatore europeo avrebbe dovuto adottare, come strumento principe finalizzato al riconoscimento automatico dei titoli de quibus, il Regolamento e non la Direttiva. Al di là delle considerazioni personali che lasciano il tempo che trovano, la Direttiva cardine in tema di riconoscimento delle qualifiche professionali è da individuarsi nella 2005/36/CE del Parlamento e del Consiglio europeo del 7 settembre 2005 che ha riunito in un unico atto legislativo le precedenti e svariate direttive fino ad allora esistenti, ciò al fine di avere un regime più uniforme, trasparente e flessibile in ambito di riconoscimento delle qualifiche e nell’ottica eurounitaria di un mercato del lavoro sempre più aperto e accessibile a tutti i cittadini dell’Unione.
Nel 2013, la Commissione europea constatò che persistevano ancora degli ostacoli nella logica del riconoscimento dele qualifiche professionali e così fu approvata la Direttiva 2013/55/CE volta a dirimere irregolarità interpretative riscontrate nelle attività di alcuni Stati membri e a celerizzare le procedure per il riconoscimento pacifico e legittimo.
A tal uopo, con una importante sentenza del 21 settembre 2017, C-125/16, la Corte di giustizia ha specificato che “la direttiva 2005/36 fissa le regole secondo cui uno Stato membro, ossia lo Stato membro ospitante, il quale sul proprio territorio subordina l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio al possesso di determinate qualifiche professionali, riconosce, per l’accesso a tale professione e il suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in uno o più Stati membri, vale a dire lo Stato membro o gli Stati membri d’origine, e che permettono al titolare di tali qualifiche di esercitarvi la stessa professione”.
L’art. 1 del TFUE prevede la distinzione tra “Stato membro ospitante” e “Stati membri d’origine”. Tale differenza è molto importante in quanto si fonda sull’obbligo, posto in capo allo Stato ospitante di riconoscere la formazione professionale attestata in un titolo rilasciato dallo Stato d’origine. Dunque, l’obbligo in argomento si traduce nel dover accettare le qualifiche professionali legittimamente acquisite in altri Stati membri.
In merito a tutto quanto sopra delineato, appare cristallino come ai cittadini italiani che nel corso degli anni si sono recati in un Paese UE e abbiano conseguito un titolo, certificato, abilitazione et similia deve essere applicata la direttiva 2005/36 e quindi essere riconosciuto loro il proprio diritto in ossequio al reciproco riconoscimento dei titoli acquisiti all’interno della U.E.