Dovere di esclusività del pubblico dipendente

 

  1. Introduzione. 2. Articolo 53 D. Lgs. 165/2001“Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”. 3. L’autorizzazione all’esercizio di attività compatibili. 4. Le sanzioni per l’esercizio di attività non autorizzata. 5. Il personale docente.

 

  1. Introduzione

Oltre ai noti casi a cui al funzionario pubblico vengono contestati danni erariali per milioni di euro, di recente la Corte dei Conti si occupa con maggiore frequenza dei danni alla finanza pubblica arrecati all’amministrazione dallo svolgimento di una seconda attività lavorativa da parte del pubblico funzionario.

In particolare, si riscontra un incremento delle contestazioni da parte delle procure regionali contabili ai pubblici dipendenti, relative anche a modiche somme, per aver omesso di richiedere l’autorizzazione necessaria ad esercitare un’attività secondaria.

Il pubblico dipendente ha, infatti, un dovere di esclusività nell’esercizio della prestazione lavorativa nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, nascente dalla Carta Costituzionale.

L’art. 98 della Carta Fondamentale statuisce che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

In precedenza all’emanazione della Costituzione con il Regio Decreto n. 693 del 22 novembre 1908, recante “Approvazione del T.U. delle leggi sullo stato giuridico degli impiegati civili”, era già disciplinato nel nostro ordinamento l’istituto delle incompatibilità degli impiegati statali.

Il dovere di esclusività del pubblico funzionario, ossia il dovere di eseguire la propria prestazione lavorativa retribuita solo in favore dell’amministrazione, risponde ai principi di imparzialità e buon andamento[1] dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione.

Tale dovere mira a perseguire, inoltre, il prestigio della funzione amministrativa.

Il dovere di esclusività impone al pubblico dipendente di riservare le proprie energie lavorative ad esclusivo vantaggio dell’amministrazione di appartenenza, non potendole dissipare esercitando ulteriori attività, che lo distolgano dal dovere di collaborazione che egli deve al proprio datore di lavoro.

A livello europeo anche l’ordinamento francese  prevede il dovere di esclusività del rapporto di pubblico impiego[2].

Nel nostro ordinamento il dovere di esclusività, essendo previsto a livello costituzionale, non può essere derogato né dalle parti né dai contratti collettivi, ma può essere regolato dal solo Legislatore[3].

Nel sistema italiano analogo dovere di esclusività non sussiste nell’ambito dell’impiego privato.

Per tale ultimo settore, infatti, il codice civile stabilisce che lo svolgimento di un’attività secondaria è ammesso e vieta solo lo svolgimento di attività che si pongono in concorrenza con quella del privato datore di lavoro[4].

Infatti, in solo in tale ipotesi il dipendente privato potrà incorre in una responsabilità disciplinare.

 

 

  1. Articolo 53 del D. Lgs. 165/2001Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”.

L’articolo 53 del D. Lgs.  165/2001 rappresenta la norma generale in materia.

Tale disposizione, al primo comma, richiama espressamente il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi di cui all’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, secondo il quale: “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.

Gli incarichi connotati dai caratteri della abitualità e professionalità, ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, costituiscono incompatibilità di tipo assoluto.

Il carattere della professionalità è ravvisato nella continuità e non occasionalità dello svolgimento della professione, anche qualora la stessa sia svolta in maniera esclusiva.

La mera iscrizione ad un albo professionale, infatti, non risulta vietata dalla legge, ma accade con frequenza che le singole regolamentazioni degli enti professionali prescrivono, ai fini della valida iscrizione e permanenza nell’albo o ordine, l’esercizio continuativo dell’attività professionale. Indice sintomatico della abitualità dell’attività secondaria esercitata in modo continuativo è l’apertura della partita I.V.A..

Con riferimento alle cariche in società – sia di persone che di capitali -, al pubblico dipendente è vietato ricoprire ruoli di amministrazione e di gestione.

Risulta, quindi preclusa al pubblico dipendente la possibilità di assumere cariche sociali di amministratore, consigliere e sindaco.

Invece, allo stesso è concessa la possibilità di assumere la qualifica di socio nelle società di capitali, senza alcuna autorizzazione, e nelle società in accomandita semplice la posizione di socio accomandante.

Nelle società cooperative la giurisprudenza prevalente ritiene che non si pone il problema di incompatibilità, ma qualora la società cooperativa persegua oltre allo scopo mutualistico anche quello di lucro, bisognerà valutare la prevalenza dello scopo mutualistico e l’impegno del pubblico dipendente nell’assolvimento dell’incarico.

Dopo aver sancito le attività incompatibili assolute, l’art. 53 del D. Lgs.  165/2001  prevede una deroga per il personale con contratto con regime orario part-time con una percentuale inferiore al 50% e che mantengano efficacia alcune disposizioni previgenti relative a particolari categorie di dipendenti.

In particolare, restano ferme le previsioni concernenti i docenti delle scuole medie superiori di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 e 676 del D. Lgs. 297/1994,  i dipendenti degli enti lirici di cui all’articolo 9, commi 1 e 2, della L. 498/1992 ed infine il personale sanitario di cui all’articolo 4, comma 7, L. 412/1991.

Ulteriore tipologia di incompatibilità all’esercizio dell’attività secondaria è individuata nella presenza di un conflitto di interessi fra lo svolgimento della prestazione lavorativa presso l’amministrazione e l’attività ulteriore.

Fra le situazioni di conflitto di interessi sono state individuate specifiche ipotesi, meramente descrittive e non tassative, dal Dipartimento della Funzione Pubblica[5].

A prescindere dalla consistenza dell’orario lavorativo tutti gli incarichi che anche solo in via meramente potenziale potrebbero interferire con l’attività ordinaria del pubblico dipendente, con riguardo alle modalità, al tempo, alla durata o al ruolo professionalmente ricoperto sono da considerarsi vietati e, quindi, non autorizzabili.

Tradizionalmente il dovere di esclusività non operava in relazione a prestazioni di tipo gratuito, quali lo svolgimento di attività di volontariato.

Con il D.P.R. n. 62 del 16/04/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), però, è stato introdotto l’obbligo per il dipendente pubblico di comunicare tempestivamente all’amministrazione di appartenenza la propria adesione ad associazioni o organizzazioni i cui ambiti di interesse possono interferire con lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dal contenuto riservato o meno.  Tale disciplina precisa, inoltre, che non sono soggette a dovere di comunicazioni le adesioni a partiti politici o ad organizzazioni sindacali (articolo 5 del D.P.R. 62 del 16/04/2013).

L’articolo 53 del D. Lgs.  165/2001, infine, al comma sei, elenca alcune attività retribuite che il pubblico dipendente può esercitare senza previa autorizzazione. Fra queste ultime vi rientrano: la collaborazione con giornali, riviste, enciclopedie e simili; l’utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; la partecipazione a convegni e seminari; gli incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; gli incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; gli incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; le attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione.

 

  1. L’autorizzazione all’esercizio di attività compatibili.

Il dovere di esclusività non è stato interpretato in senso inderogabile dal Legislatore, essendo presenti nell’ordinamento eccezioni alla sua operatività.

Al pubblico dipendente viene, infatti, concessa dalla legge la possibilità di esercitare un’attività secondaria. Per esercitare tale attività, però, egli deve ottenere l’autorizzazione disciplinata dal comma 10 dell’articolo 53 del D. Lgs.  165/2001.

A seguito del rilascio dell’autorizzazione il pubblico dipendente può esercitare liberamente l’attività secondaria purché non interferisca con i doveri dell’ufficio a cui è preposto.

In mancanza di tale autorizzazione, o in violazione della stessa, invece, il pubblico dipendente, salvo più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, può essere chiamato a rispondere dei danni causati all’amministrazione davanti al giudice contabile.

Con riguardo all’iter per l’ottenimento dell’autorizzazione è necessario chiarire sin da subito che il datore di lavoro privato o pubblico che intende conferire l’incarico deve richiederla all’amministrazione di appartenenza.

In mancanza di tale richiesta da parte del datore di lavoro può essere presentata dallo stesso lavoratore.

Al fine del rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di un’attività ulteriore, il Dirigente dell’amministrazione di appartenenza dovrà verificare, in primo luogo, se l’attività di cui si chiede il beneficio allo svolgimento risulta essere in conflitto di interessi.

Infatti, come chiarito sopra, al pubblico dipendente è preclusa in assoluto la possibilità di svolgere attività che collidano, anche in via meramente potenziale, con la prestazione lavorativa resa per l’amministrazione di appartenenza.

La giurisprudenza contabile ha puntualizzato che l’autorizzazione prescritta dall’articolo 53, comma 7, del D. Lgs. 165/2001 è finalizzata a verificare in concreto la compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego.

In particolare, l’autorizzazione è volta a verificare se l’incarico possa ingenerare, anche solo in via potenziale, una situazione di conflittualità con le funzioni pubbliche svolte, nonchè la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza, la occasionalità o saltuarietà della prestazione[6].

In secondo luogo, ai fini del rilascio dell’autorizzazione, il dirigente dovrà valutare in concreto se attraverso l’attività secondaria il pubblico dipendente trae utilità dirette o indirette dal proprio status di funzionario pubblico.

Infatti, al pubblico dipendente è preclusa la possibilità di utilizzare la propria qualifica lavorativa pubblica per garantirsi occasioni che in caso contrario non avrebbe la possibilità di raggiungere.

Tale seconda condizione (da verificare in concreto caso per caso) se sussistente lederebbe il prestigio e l’immagine dell’amministrazione.

Nel caso in cui l’incarico di cui si chiede l’autorizzazione venga espletato presso un soggetto privato, l’amministrazione deve pronunciarsi entro trenta giorni dalla richiesta e, in caso di silenzio, l’autorizzazione si intende negata.

Nel caso in cui l’incarico di cui si chiede l’autorizzazione, invece, venga espletato presso altra amministrazione pubblica, l’autorizzazione deve essere rilasciata previa intesa fra le due amministrazioni e decorso il termine per provvedere, l’autorizzazione, si intende accordata.

Qualora l’autorizzazione sia accordata, entro quindici giorni dall’erogazione del compenso al pubblico dipendente i soggetti pubblici o privati devono comunicare all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dello stesso.

 

  1. Le sanzioni per l’esercizio di attività non autorizzata.

In caso di mancata richiesta dell’autorizzazione da parte del datore che riceve la prestazione del dipendente pubblico, le sanzioni sono diversificate in base alla natura pubblica o privata del soggetto.

Per il datore di lavoro privato l’art. 53, comma 9, D. Lgs. 165/2001, rinviando all’art. 6, comma 1, D.L. n. 79 del 28-3-1997, stabilisce che, oltre alle sanzioni per le eventuali violazioni tributarie o contributive, si applica una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici.

Tali somme sono riscosse dal Ministero delle Finanze, e non dall’amministrazione datrice di lavoro.

La sanzione irrogata al datore di lavoro privato, pertanto, è qualificabile come illecito amministrativo che viene accertato dal Ministero delle Finanze e punito con una sanzione amministrativa.

Parte della giurisprudenza contabile ha evidenziato il fondamento “repressivo-preventivo” della sanzione di cui all’art. 53, comma 7, del  D. Lgs. n. 165/2001[7].

 

La sanzione irrogata al datore di lavoro pubblico, invece, non è costituita da una sanzione pecuniaria irrogata in capo all’amministrazione, bensì da una responsabilità di tipo disciplinare imputata al dipendente pubblico che ha conferito l’incarico.

In tale ultima ipotesi l’atto di autorizzazione rilasciato dal responsabile del procedimento è considerato nullo.

Al dipendente pubblico che ha omesso di chiedere l’autorizzazione, oltre all’apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti, potranno essere richiesti i compensi ricevuti indebitamente da parte dell’amministrazione.

Infine, il pubblico dipendente potrà essere chiamato a rispondere avanti alla Corte dei Conti per responsabilità amministrativa.

In passato poteva essere richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale al dipendente pubblico, in particolare il danno all’immagine, ma solo qualora il fatto illecito (prestazione lavorativa in favore di terzi senza previa autorizzazione) fosse stato divulgato tramite i mass media.

La normativa attuale, invece, prevede che l’azione per il risarcimento del danno all’immagine sia esercitabile nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 L. 97/2001, il quale fa riferimento alle sentenze irrevocabili di condanna per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I, titolo II, Libro III del codice penale[8].

In caso di incompatibilità assoluta, il dipendente verrà previamente diffidato a cessare la situazione di incompatibilità entro 15 giorni.

Nel caso in cui non ottemperi alla diffida il dipendente decade dall’incarico.

In caso di cessazione della situazione di incompatibilità, invece, il suo comportamento avrà rilievo solo sul piano disciplinare.

Sotto il profilo disciplinare, nei confronti del pubblico dipendente verrà aperto un procedimento disciplinare con la garanzia del contraddittorio e la sanzione finale irrogata potrà anche essere quella del licenziamento per giusta causa.

Si segnala infine che le pubbliche amministrazioni, dal 2013, sono tenute alla pubblicazione di un elenco attestante gli incarichi conferiti, anche a titolo gratuito, e le autorizzazioni rilasciate ai propri dipendenti, con la precisa indicazione della durata e del compenso spettante per ogni incarico[9].

 

  1. Il personale docente.

L’articolo 53 del D. Lgs. 165/2001 prevede che le disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 e 676 del D. Lgs. 297/1994 continuano ad applicarsi.

Tali norme riguardano il cumulo di impieghi del personale  docente  dei conservatori di musica e delle accademie di belle arti con contratti di collaborazione con il personale dipendente da enti lirici o da altre istituzioni  di produzione musicale (articoli 267, comma 1, 273 e 274 del D. Lgs. 297/1994 ) e del personale docente (508 del D. Lgs. 297/1994).

L’articolo 508 del D. Lgs. 297/1994 (“Incompatibilità”) afferma che “al personale docente non è consentito impartire lezioni private ad alunni del proprio istituto” e che nel caso in cui il docente assuma lezioni private ad alunni non del proprio istituto scolastico è  tenuto  ad informare il direttore didattico o il preside (oggi Dirigente Scolastico).

Tale norma, poi, prescrive che: “nessun alunno può essere giudicato dal docente dal quale abbia ricevuto lezioni private; sono nulli gli scrutini o le prove di esame svoltisi in contravvenzione a tale divieto”.

Al comma 10 la norma prescrive le incompatibilità assolute per il personale docente (“Il personale di cui al presente titolo non può esercitare attività commerciale, industriale e professionale, ne può assumere o mantenere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società od enti per i quali la nomina è riservata allo Stato e sia intervenuta l’autorizzazione del Ministero della pubblica istruzione”).

Infine, al comma 15 della disposizione in esame è previsto che: “al personale docente e’ consentito, previa  autorizzazione  del direttore didattico o del preside, l’esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte  le  attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’ orario  di insegnamento e di servizio”.

La disposizione normativa in esame è volta a salvaguardare il buon andamento dell’istituzione scolastica e ad evitare l’insorgenza di un potenziale conflitto di interessi.

Questa norma detta criteri sia per i docenti con contratto a tempo indeterminato, sia per coloro che lavorano con contratto a tempo determinato.

Tuttavia,  occorre interpretare tale disposizione in combinato disposto con l’articolo 53 del D. Lgs. 165/2001, che esclude espressamente dall’applicazione del regime delle incompatibilità i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quello a tempo pieno.

Pertanto, i docenti assunti a tempo indeterminato che svolgono il proprio incarico in regime part time (anche a seguito di trasformazione) possono chiedere l’autorizzazione al Dirigente Scolastico per esercitare ulteriori attività lavorative secondarie che non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e che non siano incompatibili con le attività dell’istituzione scolastica di appartenenza.

Alla luce della normativa vigente l’impiego del personale docente risulta incompatibile con lo svolgimento di: attività imprenditoriale (“l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione”); impieghi alle dipendenze di privati o cumulo di impieghi pubblici, salvo le eccezioni stabilite dalla legge; ricoprire cariche in società costituite a fine di lucro (quindi assumere la qualità di socio in società di persone, salvo il caso di socio accomandante nelle s.a.s., ricoprire la carica di presidente o amministratore in società di capitali).

Il personale in regime di part-time con prestazione di lavoro non superiore al 50% di quella a tempo pieno, invece, può svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo, previa autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, qualora non sussistano nel caso concreto potenziali situazioni di conflitto di interessi e non siano pregiudicate le esigenze di servizio.

 Avv. Maria Cristina Fabbretti

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[1]  “Vero cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale” Corte Costituzionale, sentenza n. 123 del 1968.

[2]  L’articolo 25 della L. 83-634 del 13/07/1983prevede che:“Les fonctionnaires et agents non titulaires de droit public consacrent l’intégralité de leur activité professionnelle aux tâches qui leur sont confiées. Ils ne peuvent exercer à titre professionnel une activité privée lucrative de quelque nature que ce soit” (http://legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000000504704#LEGIARTI000020960338 sito web consultato in data 28 gennaio 2016)

[3]  Articolo 2, comma 1, lett. c), n. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421.

[4] L’articolo 2105 c.c. prevede che: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.

[5] Il documento elaborato nell’ambito del tavolo tecnico previsto dall’Intesa sancita in Conferenza unificata il 24 luglio 2013, mediante confronto tra i rappresentanti del Dipartimento della funzione pubblica, delle Regioni e degli Enti locali, prevede le seguenti fattispecie di incarichi svolti in situazione di conflitto di interessi individuate sono: “Gli incarichi che si svolgono a favore di soggetti nei confronti dei quali la struttura di assegnazione del dipendente ha funzioni relative al rilascio di concessioni o autorizzazioni o nulla-osta o atti di assenso comunque denominati, anche in forma tacita. Gli incarichi che si svolgono a favore di soggetti fornitori di beni o servizi per l’amministrazione, relativamente a quei dipendenti delle strutture che partecipano a qualunque titolo all’individuazione del fornitore. Gli incarichi che si svolgono a favore di soggetti privati che detengono rapporti di natura economica o contrattuale con l’amministrazione, in relazione alle competenze della struttura di assegnazione del dipendente, salve le ipotesi espressamente autorizzate dalla legge. Gli incarichi che si svolgono a favore di soggetti privati che abbiano o abbiano avuto nel biennio precedente un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all’ufficio di appartenenza. Gli incarichi che si svolgono nei confronti di soggetti verso cui la struttura di assegnazione del dipendente svolge funzioni di controllo, di vigilanza o sanzionatorie, salve le ipotesi espressamente autorizzate dalla legge. Gli incarichi che per il tipo di attività o per l’oggetto possono creare nocumento all’immagine dell’amministrazione, anche in relazione al rischio di utilizzo o diffusione illeciti di informazioni di cui il dipendente è a conoscenza per ragioni di ufficio. Gli incarichi e le attività per i quali l’incompatibilità è prevista dal d.lgs. n. 39/2013 o da altre disposizioni di legge vigenti. Gli incarichi che, pur rientrando nelle ipotesi di deroga dall’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, presentano una situazione di conflitto di interesse. In generale, tutti gli incarichi che presentano un conflitto di interesse per la natura o l’oggetto dell’incarico o che possono pregiudicare l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente. La valutazione operata dall’amministrazione circa la situazione di conflitto di interessi va svolta tenendo presente la qualifica, il ruolo professionale e/o la posizione professionale del dipendente, la sua posizione nell’ambito dell’amministrazione, la competenza della struttura di assegnazione e di quella gerarchicamente superiore, le funzioni attribuite o svolte in un tempo passato ragionevolmente congruo. La valutazione deve riguardare anche il conflitto di interesse potenziale, intendendosi per tale quello astrattamente configurato dall’art. 7 del d.P.R. n. 62/2013 (http://www.funzionepubblica.gov.it/TestoPDF.aspx?d=33646).

[6]  “Come chiarito puntualmente dalla giurisprudenza contabile l’autorizzazione prescritta dall’art.53, co.7 è finalizzata a verificare in concreto: a) se l’espletamento dell’incarico, già prima della L. n. 190 del 2012 (e del d.P.R. n.62 del 2013, che esaltano l’antico e già preesistente problema dei conflitti di interesse) possa ingenerare, anche in via solo ipotetica o potenziale, situazione di conflittualità con gli interessi facenti capo all’amministrazione e, quindi, con le funzioni (ad essi strumentali) assegnate sia al singolo dipendente che alla struttura di appartenenza (problema particolarmente delicato nel comparto Sanità); b) la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (che dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di servizio), nonché con le mansioni e posizioni di responsabilità attribuite al dipendente, interpellando eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di appartenenza, che dovrà esprimere il proprio parere o assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta; c) la occasionalità o saltuarietà, ovvero non prevalenza della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di lavoro ovvero l’impegno complessivo previsto dallo specifico rapporto di lavoro, con riferimento ad un periodo determinato;  d) la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare intensità di impegno; e) specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di procedimenti disciplinari recenti o note di demerito in relazione all’insufficiente rendimento, livello culturale e professionale del dipendente); f) corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a lui affidato (Corte dei conti, sez. Giur. Lombardia n. 233/2014)” (Corte dei Conti Sez. Giur. Piemonte, n. 78/2015).

[7]  “Introduzione di un obbligo di “versamento” dei compensi indebitamente percepiti all’Amministrazione d’appartenenza, con la finalità di determinare la “sostanziale disutilità della prestazione dal dipendente pubblico così effettuata in favore di terzi (nel senso della vanificazione dell’impegno dal medesimo profuso in ragione della previsione della spogliazione dei proventi relativi)” (Corte dei Conti, Sez. Marche n. 28/2013).

 

[8]  Tale previsione è stata inserita nel nostro ordinamento dall’art. 17, comma 30 ter, del D.L. 78/2009 convertito con la L. 102/2009, come modificato dal D.L- 103/2009.

[9] L’articolo 18 del D. Lgs. 33/2013 Obblighi di pubblicazione dei dati relativi agli incarichi conferiti ai dipendenti pubblici” prevede che: “Le pubbliche amministrazioni pubblicano l’elenco degli incarichi conferiti o autorizzati a ciascuno dei propri dipendenti, con l’indicazione della durata e del compenso spettante per ogni incarico”.