Il Tribunale di Como, con una significativa sentenza (la n. 131 del 28.07.2020), è intervenuto sul delicato tema delle dichiarazioni non veritiere rese in occasione dell’accesso al pubblico impiego.
La vicenda processuale prende le mosse da quanto accaduto ad un docente precario nei confronti del quale l’Istituto scolastico aveva risolto il contratto a tempo determinato e lo aveva escluso dalle graduatorie di istituto di terza fascia per tutto il periodo di loro vigenza, disconoscendo la validità ai fini giuridici del servizio fino ad allora prestato.
Tali provvedimenti erano dipesi dal fatto che il docente aveva omesso di menzionare, nella dichiarazione sostitutiva di certificazione resa al momento della sottoscrizione del contratto, una sua pregressa condanna penale e nell’avere indicato, nella domanda di inserimento nelle graduatorie di istituto, un voto di laurea diverso da quello effettivamente conseguito.
Il Tribunale, pur non negando la mendacità delle dichiarazioni rese dal docente, ha abbracciato tuttavia il recente intervento della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, espresso nella sentenza n. 18699/2019, secondo cui le false dichiarazioni producono l’automatico effetto caducatorio di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 con conseguente nullità del contratto solo quando comportano la carenza di un requisito che in ogni caso avrebbe impedito l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A. Ciò si verifica quando la legge (o anche un bando di concorso non contrario alla legge) stabilisce rispetto ad un determinato requisito una regola certa di incompatibilità con l’accesso all’impiego pubblico.
In tal caso, le dichiarazioni agiscono come causa di decadenza, quale effetto di un vizio “genetico” del contratto.
Al contrario, allorquando queste riguardano requisiti non ostativi all’assunzione e quindi ad essa non essenziali, assumono il carattere di vizi “funzionali” e costituiscono ragione di risoluzione, ricadendo non più nell’alveo dell’art. 75 del D.P.R. citato ma in quello dell’art. 55-quater, lett. d) del D.Lgs. n. 165/2001, disposizione che prevede il licenziamento per i falsi documentali e dichiarativi resi in occasione ed ai fini dell’assunzione.
In tali ipotesi la P.A. non deve decretare la caducazione del rapporto ipso iure ma procedere nelle forme disciplinari, previa valutazione della gravità concreta dell’accaduto.
Il Tribunale, dopo tali premesse ed all’esito dell’esame delle disposizioni contenute nel Decreto Ministeriale n. 374/2017, disciplinante l’aggiornamento della II e III fascia delle graduatorie di circolo e d’istituto del personale docente ed educativo per il triennio 2017/2020 e che costituisce bando di concorso, ha riconosciuto che sia la falsa dichiarazione del voto di laurea che quella relativa alla precedente condanna penale non riguardavano dati essenziali all’assunzione.
Entrambe le infedeli dichiarazioni, quindi, non ricadevano nel regime di automatica decadenza dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 bensì in quello dell’art. 55-quater, lett. d) del D.Lgs n. 165/2001. Di conseguenza l’Istituto scolastico avrebbe dovuto necessariamente avviare nei confronti del docente un procedimento disciplinare al fine di un più approfondito apprezzamento giuridico dell’effettiva gravità delle condotte da questi poste in essere.
In particolare, per quanto concerne la omessa dichiarazione sulla condanna penale, l’organo giudicante ha affermato che l’art. 9, comma 4 del citato D.M., “nel prevedere l’esclusione dalla graduatoria di circolo e d’istituto e, quindi, la risoluzione del contratto eventualmente stipulato con il candidato che indistintamente avesse reso autodichiarazioni mendaci e quindi, senza attribuire alcun rilievo, nel caso in cui si riferissero a precedenti condanne penali, al tipo di reato commesso, si pone in evidente contrasto con il principio (recepito peraltro anche nel precedente art. 3 co 2 del D.M.) che solo determinati reati, di particolare gravità (ad es. quelli che comportano a destituzione o la decadenza da un pubblico impiego, quelli previsti dalla l. 16/1992 o che comportano la temporanea interdizione) risultano direttamente ostativi all’assunzione nel pubblico impiego, senza possibilità di alcun apprezzamento discrezionale”.
L’effetto automatico della decadenza dall’impiego, quindi, sarebbe potuta derivare “soltanto dall’aver taciuto la condanna subita per la commissione di questi e non anche di altri, meno gravi reati”.
In merito poi al provvedimento di esclusione dalla graduatoria, motivata dalla dichiarazione del voto di laurea superiore a quello effettivo, il Tribunale ha chiarito che questa rientrava nell’alveo applicativo dell’art. 8, comma 7 del D.M. n. 374/2017 – con conseguente applicazione della più mite sanzione della rideterminazione del punteggio – e non già non in quello dell’art. 9, comma 4 del D.M. n. 374/2017, pur invocato dal M.I.U.R.
Ha affermato infatti in proposito che detto articolo “deve essere logicamente riferito – in base al principio per cui l’effetto automatico della decadenza ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 si produce solo per le false dichiarazioni che occultano la mancanza di un requisito richiesto per l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A.- non a una qualsiasi dichiarazione non veritiera, ma solo a quella finalizzata ad ottenere l’ammissione nella graduatoria, cioè diretta a celare la mancanza di uno dei requisiti richiesti dagli artt. 2 e 3 dm cit.”.
Per tali ragioni, il Tribunale, respingendo le argomentazioni difensive del M.I.U.R, ha annullato sia il decreto di risoluzione del contratto di lavoro a termine che quello di depennamento dalla graduatorie, riconoscendo al docente, sia ai fini giuridici che economici, il servizio che questi avrebbe reso fino alla naturale scadenza contrattuale (30 giugno).