Corte di Cassazione, n. 26016/2018
“Per effetto della mancata disapplicazione del co.58 bis dell’art.1, del d.lgs. n. 662/1997 (introdotto con la l. n. 140/1997) da parte dell’art.1, co.1 della l. n.339/2003, all’Amministrazione compete la valutazione in concreto della legittimità dell’assunzione del patrocinio legale, da parte dell’insegnante che ivi presti servizio, nonché l’individuazione delle attività che, in ragione dell’interferenza con i compiti istituzionali, non sono consentite ai dipendenti, con particolare riferimento all’assunzione di difese in controversie di cui la stessa amministrazione scolastica è parte”.
(MASSIMA UFFICIALE)
Il Caso.
Una docente in servizio in provincia di L’Aquila si era rivolta al Giudice del lavoro di L’Aquila, impugnando il provvedimento col quale il Dirigente Scolastico le aveva negato l’autorizzazione all’esercizio della libera professione, nelle controversie in cui era parte l’amministrazione scolastica.
La questione è dunque in parte differente da altre in cui l’esclusione al patrocinio si riferiva a tutte le controversie in cui è parte una pubblica amministrazione.
Il Tribunale rigettava il ricorso, ma la sentenza veniva riformata in appello (http://www.dirittoscolastico.it/tag/corte-dappello-di-laquila/).
Avverso detta pronuncia proponeva ricorso la difesa erariale per “Violazione e falsa applicazione dell’art.97 della Costituzione; della l. 339/2003; dell’art.58 bis l. n.662/1996; del R.D.L, 27.11.1933 e succ. modificazioni; del Codice deontologico forense; degli artt. 2 e 6 del codice di comportamento dei pubblici dipendenti; dell’art. 508 del D. Lgs. n.297/1994”.
In buona sostanza, la Corte era chiamata a pronunciarsi non tanto sull’applicabilità ai professori avvocati delle disposizioni di cui alla l. n. 662/1996, ma sulla questione di un possibile conflitto di interessi tra la figura del professore dipendente e la figura del professore avvocato, in controversie in cui è parte la stessa amministrazione scolastica presso la quale il docente presta servizio.
La difesa erariale aveva osservato (testualmente in sentenza) “Nel caso di specie il conflitto e l’interferenza sono quanto mai concreti, perché risulta che molti avvocati-professori delle scuole hanno assunto il patrocinio in ricorsi proposti ai Giudici del lavoro e amministrativi del personale scolastico e di frequente accade che il Dirigente scolastico autorizzato alla difesa ex art. 417 bis cod. proc. civ., trova in tribunale il professore in servizio nella scuola che dirige, in posizione avversa a quella che egli è chiamato a difendere”.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte -nel cassare senza rinvio la citata sentenza della Corte territoriale- ha affermato: “non è dato ritenere che non sussista in capo all’amministrazione scolastica alcun margine per valutare la legittimità dell’assunzione del patrocinio legale da parte del docente-avvocato”.
Per la Corte di legittimità, inoltre, resta ferma “la possibilità in capo alle amministrazioni scolastiche di valutare in concreto singoli casi di conflitto d’interesse o comunque d’interferenza con i compiti istituzionali del docente.
Pertanto la Corte, nell’affermare il principio di diritto rubricato in epigrafe, rigettava l’originaria domanda.
Non si pronunciava in merito alle censure per violazione del principio di imparzialità di cui all’art.97 Cost., nonché di fedeltà, avanzate dalla difesa erariale.
Tali censure a parere dello scrivente erano in ogni caso prive di fondamento[1].
Occorre infatti considerare che in materia di pubblico impiego soccorrono dei precetti di rango costituzionale, quali l’art. 98 Cost., che prevede che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione” (non dell’amministrazione, N.d.R.) e l’art. 97 Cost. (“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”).
Dunque, non sussiste nel pubblico impiego un dovere di fedeltà al proprio datore di lavoro, ma tale dovere va riferito alla Nazione e non certo all’amministrazione-apparato.
Sotto un altro profilo, è alquanto arduo sostenere che risulti contrario agli “interessi” della P.A. la verifica e il controllo anche in sede giurisdizionale della propria attività, in relazione alla legalità e all’imparzialità di atti e provvedimenti adottati.
Sostenere che la richiesta dell’annullamento di un provvedimento illegale della P.A. sia contrario agli “interessi” della P.A. porterebbe a svuotare di significato il precetto di cui all’art. 97, attribuendo una presunzione di legalità iuris et de iure ad atti e comportamenti della P.A.-apparato, certamente non compatibile con i principi dello stato di diritto, fin dai tempi dell’emanazione dell’“allegato E”, di cui alla legge 20 marzo 1865.
Né è pensabile ritenere, dal punto di vista giuridico, che possa sussistere un “interesse” della P.A. all’emanazione di un atto illegittimo.
Non a caso -oltre al ricorso giurisdizionale-, è possibile esperire il ricorso amministrativo e la stessa P.A. può rimuovere il provvedimento illegittimo “in autotutela”.
Sul punto, soccorre ancora una volta l’autorevole insegnamento della Suprema Corte: (“La previsione d’un potere-dovere di annullamento (…), lungi dal rappresentare “un elemento di distorsione della funzionalità degli uffici”, si configura invece quale elemento fondante dell’azione amministrativa (in quanto corollario del principio di legalità), tra i cui fini deve intendersi compreso quello di evitare il consolidarsi di situazioni costituitesi contra legem: Corte Cost., 22/03/2000, n. 75).
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A prima vista, il principio affermato dalla Corte di legittimità appare condivisibile.
Si pensi al caso di uno studente bocciato, magari dallo stesso Consiglio di classe di cui fa parte il docente-avvocato.
Risulta evidente in questo caso il contrasto con i compiti istituzionali del docente che intendesse patrocinare un ricorso contro la bocciatura.
C’è però da dire che le censure della difesa erariale (sostanzialmente accolte dalla Corte) si riferivano ad una situazione di conflitto di interessi.
La domanda iniziale della docente era rivolta a far dichiarare l’illegittimità del diniego a patrocinare in cause in cui è “parte” l’amministrazione scolastica.
Si pensi al caso di un professore avvocato che difenda un controinteressato in un processo di fronte al giudice amministrativo, in cui si chieda di far dichiarare l’illegittimità di un bando di concorso indetto dal Miur.
In questo caso, il docente avvocato si verrebbe a trovare in una situazione non di conflitto, ma di affiancamento della posizione della difesa erariale.
Pertanto, in tal caso l’attività difensiva non si pone in contrasto con l’amministrazione o in interferenza con i compiti istituzionali del docente.
Sul piano processuale, non si comprendono le ragioni per cui la Corte abbia rigettato integralmente la domanda; per coerenza con quanto affermato in massima, a tutto voler concedere la Corte avrebbe dovuto accoglierla (in parte) e respingerla per il resto, ritenendo fondate le doglianze almeno per quanto riguarda il patrocinio in cause in cui il docente avvocato non si pone in posizione contraria a quella dell’amministrazione scolastica.
O meglio, annullare con rinvio, demandando alla Corte territoriale l’esame del merito, sulla base del principio di diritto enunciato.
Ma non sono queste le uniche perplessità di fronte alla pronuncia che si commenta.
Ed invero, la Corte ha ritenuto che la mancata disapplicazione del comma 58 bis dell’art. 1, l. n. 662/1996 abbia operato una sorta di “integrazione” della lex specialis per i professori avvocati, i quali potrebbero certamente esercitare l’attività libero-professionale, ma con i limiti introdotti dalla citata disposizione di legge.
Di seguito la disposizione in esame: “Ferma restando la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse, le amministrazioni provvedono, con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, ad indicare le attività che in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, sono comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno. I dipendenti degli enti locali possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza”.
Già da una prima lettura, emerge che la citata disposizione non solo si riferisce a quei dipendenti pubblici non professori che -in forza della previsione di cui al l. finanziaria n. 662/1996- avevano ottenuto la possibilità di essere iscritti ad albi professionali, ma riguarda espressamente i dipendenti in regime di part-time.[2]
Ma soprattutto, la citata disposizione non introduce affatto una discrezionalità tout court dell’amministrazione nell’iter autorizzativo, prevedendo piuttosto l’emanazione di un apposito “decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica”, al fine di indicare “le attività che in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, sono comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.
Dunque, l’individuazione delle “attività interferenti con i compiti istituzionali”, sebbene astrattamente possibile, nel caso concreto, in assenza e in attesa dell’apposito decreto da parte del Ministro competente, non poteva essere posta a fondamento del rigetto della domanda.
Infatti- a prescindere da ogni considerazione sulla riferibilità della disposizione in esame ai professori avvocati- il legislatore, al fine di evitare trattamenti differenziati, ha previsto l’emanazione di una norma regolamentare che permetta di individuare le attività non consentite a quei dipendenti che ottengano l’autorizzazione all’iscrizione negli albi professionali.
Per quanto riguarda poi il caso del conflitto di interessi, con ogni evidenza la valutazione va fatta caso per caso (“Ferma restando la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse) e certamente un divieto generalizzato quale quello di patrocinare in tutte le cause in cui è parte un’amministrazione scolastica non può essere ricompreso in detta previsione.
Residua inoltre un ulteriore dubbio interpretativo.
Il principio affermato “all’Amministrazione compete la valutazione in concreto della legittimità dell’assunzione del patrocinio legale, da parte dell’insegnante che ivi presti servizio, nonché l’individuazione delle attività che, in ragione dell’interferenza con i compiti istituzionali, non sono consentite ai dipendenti, con particolare riferimento all’assunzione di difese in controversie di cui la stessa amministrazione scolastica è parte” induce a ritenere che la situazione di conflitto dovrebbe limitarsi a quelle controversie in cui è parte la scuola in cui presta servizio il professore avvocato.
Infatti, il riferimento all’insegnante “che ivi presta servizio” fa ritenere che per “Amministrazione Scolastica” la Corte abbia inteso riferirsi unicamente all’Istituto Scolastico piuttosto che al Ministero.
Del resto, il provvedimento autorizzativo è di competenza del Dirigente Scolastico, al quale sarà demandata “la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse”.
E tale valutazione dovrà essere effettuata “con particolare riferimento all’assunzione di difese in controversie di cui la stessa amministrazione scolastica è parte”.
Poiché la Corte ha inteso per “Amministrazione scolastica” l’istituto scolastico di servizio, anche la limitazione dovrebbe riferirsi all’assunzione di difese in cui è parte la stessa amministrazione, id est lo stesso istituto scolastico in cui il docente presta servizio.
Si comprendono pertanto ancora meno le ragioni per cui sia stata integralmente rigettata l’originaria domanda, volta a far dichiarare l’illegittimità di un provvedimento che vietava in via generale l’esercizio della libera professione in tutte le cause in cui è parte l’amministrazione (non “quell’amministrazione”) scolastica.
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Per completezza, si rileva che la MASSIMA UFFICIALE contiene un doppio refuso, laddove fa riferimento al “comma 58 bis dell’art.1, del d.lgs. n. 662/1997”, trattandosi in realtà – come emerge del resto anche dalla sentenza– della legge (e non di un d. lgs.) n. 662/1996 (piuttosto che n. 662/1997).
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[1] Cfr., sul punto, nota dello scrivente “Professori avvocati, tra “libera professione” forense e rapporto di pubblico impiego: un binomio “incompatibile”? su questo sito http://www.dirittoscolastico.it/files/professori_avvocati_e_incompatibilita_avv_orecch.pdf
[2] Cfr., sul punto, nota dello scrivente “Professori avvocati, tra “libera professione” forense e rapporto di pubblico impiego: un binomio “incompatibile”? su questo sito http://www.dirittoscolastico.it/files/professori_avvocati_e_incompatibilita_avv_orecch.pdf
“L’equivoco in cui potrebbe incorrere un interprete frettoloso nasce dal fatto che il legislatore in subiecta materia [l. n.662/1996- N.d.R.] ha utilizzato la generica locuzione “dipendente pubblico” per riferirsi a quei dipendenti pubblici che non erano abilitati ad esercitare la professione forense in virtù delle disposizioni speciali già in vigore.
Come nel caso del d.l. n. 79/1997, anche in questa occasione, il legislatore ha continuato ad utilizzare la generica locuzione di dipendente pubblico.
“I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d’impiego, dandone comunicazione al consiglio dell’ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.(…).
“Il pubblico dipendente”, nell’ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.
Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l’iscrizione all’albo degli avvocati.
“ Il dipendente pubblico” part-time che ha esercitato l’opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell’opzione presso l’Amministrazione di appartenenza.
Come appare evidente, con la locuzione “pubblico dipendente”, il legislatore ha continuato a riferirsi a quei pubblici dipendenti che precedentemente non potevano esercitare la professione forense e – solo in virtù del decreto legge n. 79/1997 – avevano potuto essere ammessi all’esercizio della professione stessa”.