Ancora riflessioni sul diritto di critica del lavoratore

Analisi di una sentenza di legittimità che ritiene invece ingiustificato il licenziamento basato sulla critica del lavoratore.

I) Aspetti generali della libertà di opinione del lavoratore.

Il quadro delle tutele della libertà e dignità del lavoratore si completa con la protezione della libertà di opinione.

In generale va innanzitutto ricordato il diritto, sancito dall’articolo 1 dello Statuto, di libera manifestazione del pensiero, nei luoghi di lavoro, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme del medesimo Statuto.

La norma intende circoscrivere uno spazio di libertà inalienabile del lavoratore, protetto dalla tutela della riservatezza sancita dal successivo articolo 8.

L’ampia valenza protettiva dell’articolo 1 può dispiegarsi in particolare in relazione a quelle libere manifestazioni del pensiero che coinvolgono anche l’impresa (il c.d. diritto di critica verso quest’ultima), rafforzando l’idea secondo cui l’esercizio di diritti fondamentali se contenuto entro limiti espressivi adeguati e non lesivo, di per sè, dell’onore del datore di lavoro esclude la rilevanza quale giusta causa di licenziamento del relativo comportamento del lavoratore (in argomento: v. per più ampi svolgimenti: Mazzotta: 1986, 1878 ss e, in giurisprudenza: Cass 1173/86; Cass. 4952/1998 e Trib. Roma 26 giugno 2000). (C.f.r.:Mazzotta “Diritto del Lavoro, ed. Giuffrè, pag. 514 ss).

II) Riflessioni più specifiche sul diritto di critica

La libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo, garantita a tutti dalla nostra Carta fondamentale all’articolo 21, costituisce uno dei principi cardine di ogni democrazia che si rispetti, al punto da poter essere considerata unità di misura della democraticità di un ordinamento nazionale.

Quando, poi, la libera espressione del proprio pensiero si esplica nell’ambito del rapporto e dei luoghi di lavoro (articolo 1 Stat. Lav.) e diventa critica mossa nei confronti delle scelte del datore di lavoro, la sua tutela sopporta non solo il limite del rispetto dei diritti della personalità, e dunque del decoro e della reputazione dell’impresa, a sua volta specificazioni della libertà di iniziativa economica – che possono essere sacrificati solo se la critica persegue un interesse superiore collettivo – ma anche quelli che dottrina e giurisprudenza hanno definito i c.d. limiti interni al diritto di critica del lavoratore.

Perché la critica del lavoratore nei confronti dell’impresa o di suoi rappresentanti o superiori gerarchici sia legittima deve avere a oggetto fatti veri, che rispondano ai criteri di veridicità ed oggettività riscontrabile, nonché pertinenti, coerenti e funzionali allo scopo che la critica stessa persegue, astenendosi da accuse infondate e dai contorni meramente diffamatori (c.d. “principio della continenza sostanziale”) e deve altresì essere esternata per il mezzo di forme verbali o scritte rispettose dei criteri della correttezza e della civiltà, che non contengano, in particolare, espressioni denigratorie o scurrili che risultino offensive e ingiuriose.

Il superamento di tali limiti attraverso l’utilizzo di espressioni da parte del lavoratore che minano il c.d. “minimo etico”, attribuendo all’impresa o ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, espressioni volgari ed infamanti o deformazioni tali da suscitare disprezzo e derisione, ovvero fatti penalmente rilevanti privi di un fondamento di verità, è stato più volte qualificata dalla giurisprudenza una condotta idonea a ledere il rapporto fiduciario posto necessariamente alla base del rapporto di lavoro e porsi, dunque, come giusta causa di licenziamento del lavoratore, autore della critica scorretta (Cass. Civ. Sez. Lavoro 14527/2018) (C.f.r., per tutto: Spataro “Critica del lavoratore fondata? Licenziamento ingiustificato, da www.altalex.com).

III) Considerazioni finali.

 Le nuove riflessioni sul diritto di critica, legittimante un licenziamento, che la scorsa volta partivano dalla sentenza del 2018 sopra riportata, ora muovono dalla sentenza di Cassazione 18410/2019, la quale ha ritenuto invece ingiustificato il licenziamento se la critica al datore di lavoro muova entro i confini della continenza sostanziale e anche del c.d. “minimo etico”.

Più specificamente, come si vede, tuttavia, la critica, anche in questo caso, innanzitutto muove dall’articolo 21 Cost., prima ancora che dalle disposizioni dello Statuto dei Lavoratori e ha, di fatto, molte analogie con altri campi, come la scriminante del diritto di critica e di cronaca, in ambito penalistico, proprio a motivo del principio di continenza.

D’altro canto, sarebbe anche difficile vedere nella critica un elemento che leda il contratto, il sinallagma e, pertanto, affinché vi sia la giusta causa, se tale critica risulti falsa, inveritiera, certamente lederebbe il rapporto di fiducia tra datore e prestatore.

Di più: come è dato evincere non a caso la libertà di pensiero è tra le prime norme dello Statuto dei lavoratori.

Tuttavia, i richiami normativi e Costituzionali impongono non tanto un raffronto, ma un rispetto di valori, che giocoforza, in diritto, si deve tradurre in un quid che viene a ledere il rapporto di fiducia e, conseguentemente, la causa che dà vita al contratto di lavoro.

Dunque in quest’ottica vanno analizzate le pronunce sul diritto di critica, tra le quali l’ultima e, precisamente, la pronuncia Cass. Civ. Sez. Lav. 18410/2019.

Avv. Michele Vissani

Vicolo Lungo 4

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