La Corte d’Appello dell’Aquila, rigettando l’appello del MIUR, con la sentenza n. 1903 del 29/11/2019, ha confermato il diritto a mantenere il rapporto 1 a 1 di uno studente disabile grave nel passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di I grado, allorché gli erano state ridotte le ore del docente di sostegno, con la condanna del MIUR, dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Abruzzo e dell’istituzione scolastica, in solido tra loro, al risarcimento del danno.
Il Tribunale di Avezzano aveva, infatti, accolto il ricorso, presentato dagli avvocati Salvatore Braghini e Renzo Lancia, inteso ad ottenere il risarcimento del danno (nella misura di € 500 per ogni mese), causato della riduzione del numero di ore di sostegno nelle attività scolastiche per un periodo di 7 mesi nell’anno scolastico 2012/13, inizialmente previsto per l’orario cattedra del docente (rapporto 1 a 1) e poi dimezzato (passando a 9 ore), configurando una discriminazione indiretta ai sensi della specifica legge b. 67 del 2006 sulle Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni.
Nel proporre appello alla Corte d’appello dell’Aquila avverso l’ordinanza emessa in I grado dal Tribunale a conclusione del procedimento ex art. 702 bis cpc, il Ministero contestava in via preliminare l’incompetenza funzionale del Tribunale di Avezzano, trattandosi di causa risarcitoria, in favore del Foro erariale inderogabile, sede dell’avvocatura distrettuale (L’Aquila), nonché il difetto di legittimazione passiva dell’istituzione scolastica frequentata dall’alunno. Tali eccezioni venivano disattese dalla Corte, la prima, sul presupposto che nella fattispecie è dedotta una condotta discriminatoria perpetrata dall’Amministrazione scolastica ai danni di un alunno disabile, ai sensi della legge n. 67/2006 (art. 2), espressamente richiamata dall’art. 28 comma 1 D Lgs n. 150/2011 che, al successivo comma 2, stabilisce che, nelle controversie in materia di discriminazione, “E’ competente il Tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio” senza prevedere deroghe in favore del Foro erariale; la seconda, a motivo della immediata individuazione del luogo fisico ed istituzionale in cui si è verificata la condotta discriminatoria e dalle conseguenti responsabilità del rappresentante legale del centro di imputazione giuridica ad esso ascrivibile, nonché in ragione delle competenze proprie del Dirigente scolastico nell’era dell’autonomia scolastica, che adotta, ex art. 25 comma 4 D.Lgs n. 165/2001, i provvedimenti di gestione delle risorse e del personale ed è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e dei risultati del servizio, oltre ad avere autonomi poteri di direzione, coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane.
Nel merito della pretesa risarcitoria l’amministrazione scolastica eccepiva la non sussistenza di atti di discriminazione in danno del minore, essendosi verificata una situazione di effettiva indisponibilità di personale docente in possesso del titolo di specializzazione per il sostegno, né l’assistenza del docente di sostegno – secondo la ricostruzione ministeriale – costituirebbe l’unico strumento di integrazione nel mondo della scuola, ed ancora per aver il Giudice di prime cure trascurato i limiti oggettivi costituiti dalle risorse umane e finanziarie al momento disponibili.
La Corte d’Appello ha rigettato l’appello evidenziando che l’integrazione del disabile è un diritto di rango costituzionale e l’amministrazione non ha la facoltà di ridurre le ore di sostegno, se permane la gravità dell’handicap assunta nel Piano Educativo Individuale (PEI), invocando ragioni di bilancio.
Il collegio giudicante, composto dal Presidente relatore, Silvia Rita Fabrizio, e dai due Consiglieri, Francesco Filocamo e Alberto Iachini Bellisarii, ha, infatti, stabilito che “l’amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per i servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal Piano, ma ha il dovere di assicurare l’assegnazione, in favore dell’alunno, del personale docente specializzato, anche ricorrendo – se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi – all’attivazione di un posto di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, per rendere possibile la fruizione effettiva del diritto, costituzionalmente protetto, dell’alunno disabile all’istruzione, all’integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini“.
Pertanto – a giudizio della Corte – la riduzione delle ore di sostegno si risolve in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all’attivazione, in suo favore, di un intervento corrispondente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico. La conseguenza della predetta contrazione, a fronte di una non corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, concretizza “una discriminazione indiretta, vietata dalla L. n. 67 del 2006, art. 2, per tale intendendosi anche il comportamento omissivo dell’amministrazione pubblica preposta all’organizzazione del servizio scolastico che abbia l’effetto di mettere la bambina o il bambino con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri alunni, il che è evidentemente avvenuto nel caso di specie“.
La sentenza della Corte d’Appello assume un valore particolarmente rilevante a motivo del rigetto delle deduzioni ministeriali riguardo alla mancanza delle prove da parte dei genitori dell’alunno, ritenute necessarie per documentare l’esistenza e l’entità del danno non patrimoniale subito da quest’ultimo a morivo della riduzione delle ore assegnate all’educatore di sostegno.
Sul punto, infatti, l’orientamento del Consiglio di Stato, anche di recente ribadito, tra cui CdS n. 2023/2017, ha sposato il principio secondo cui anche il danno non patrimoniale, configurabile quale danno-conseguenza derivante dall’effettiva lesione di specifici beni/valori oggetto di tutela (e non quale mero danno-evento), deve essere puntualmente allegato e dimostrato nella sua consistenza, se del caso – e sussistendone le condizioni legittimanti – attraverso il ricorso a presunzioni, uniformandosi peraltro all’arresto della Corte di Cassazione, che, proprio in tema di danno non patrimoniale, ha considerato che, laddove si accedesse all’opposta tesi del danno “in re ipsa”, si finirebbe per snaturare la funzione stessa del risarcimento, il quale non conseguirebbe all’effettivo accertamento di un danno, ma si atteggerebbe alla stregua di vera e propria pena privata per un comportamento illecito (in tal senso: Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972; 11 novembre 2008, n. 26973).
La Corte abruzzese ha riconosciuto, invece, la fondatezza della pretesa risarcitoria ricorrendo alla prova per presunzioni. Così la sentenza: “Resta, evidentemente, difficile connotare nel minore con grave handicap e scolarizzato la situazione ante compromessa (con orario pieno) rispetto a quella successiva di compromissione (con orario ridotto), dovendo considerarsi che, in alcune circostanze, il comportamento illecito del danneggiante è de-stinato a produrre, in capo alla vittima, conseguenze dannose alquanto prevedibili (nell’ordine naturale delle cose e degli eventi), le quali, una volta dedotte, non abbisognano di specifica prova. In questi casi, stante l’immaterialità del bene tutelato, soccorre il ruolo dei mezzi di prova presuntivi (la cui rilevanza la stessa Corte di Cassazione, nelle note SS.UU di San Martino, non ha mancato di evidenziare), posto che le conseguenze negative destinate a deriva-re dalla mancanza della presenza stabile di un educatore di sostegno (ossia l’interruzione, o comunque il rallentamento in via generale, del processo di promozione e integrazione del disabile) saranno, in frangenti del genere, da ascriversi tra quelle le conseguenze per c.d. “standardizzate” di danno, ossia conseguenze dimostrabili anche sulla base di presunzioni, una volta allegata la violazione di diritti costituzionalmente garantiti (quale quello all’istruzione del disabile)”.
Il sistema di prova per presunzioni, infatti, implica che “il danneggiato dovrà allegare e provare il fatto noto da cui, presuntivamente, è scaturito il fatto ignoto, ossia le conseguenze dannose di cui si chiede il risarcimento e, solo in tale caso, interverrà l’onere dell’amministrazione di provare che, nonostante si sia verificato il fatto noto cui, per regola di comune esperienza, segue quello ignoto, nel caso concreto esso non si sia verificato.
Tale costrutto giuridico, nella fattispecie considerata, porta la Corte a concludere che essendo stata provata la condizione di disabilità e il dimezzamento delle ore di sostegno rispetto a quelle sino ad allora ritenute per lui necessarie (fatto noto), si può presumere, ex art. 2727-2729 c.c. che al minore sia derivato un danno dinamico-relazionale, posto che “l’assenza dell’insegnante di sostegno impedisce, alla luce della funzione che gli è propria, al minore disabile di svolgere ed esplicare pienamente la propria persona nell’ambito dell’attività scolastica”. Ciò sia in considerazione della gravità della disabilità, rendendone sostanzialmente impossibile un’adeguata integrazione dello studente anche sotto il profilo relazionale oltre che didattico, e sia a motivo del lasso temporale trascorso, pari a sei mesi, ossia a due terzi dell’intero anno scolastico, elementi idonei “a far ritenere sol per questo provato un danno non patrimoniale che supera quella soglia di gravità minima dell’offesa richiesta dalla giurisprudenza”.
La sentenza della Corte d’Appello anche se criticabile per aver confermato una misura risarcitoria non adeguata al pregiudizio sofferto dallo studente, per ben 7 mesi, stabilisce due principi di assoluto rilievo, in primis perché riconosce che l’inserimento e l’integrazione nella scuola rivestono un’importanza fondamentale per le famiglie, la scuola e la società nel suo complesso, oltre che, ovviamente, per lo stesso disabile, favorendone il recupero e la socializzazione, al punto da non potersi anteporre questioni di bilancio ai bisogni certificati dello studente, ed ancora, con riferimento alla non necessità di fornire una specifica prova delle conseguenze dannose che si producono in capo al minore, giudicate dalla Corte al quanto prevedibili nei casi di arbitraria riduzione delle ore assegnate all’educatore di sostegno, essendo sufficiente dimostrare che ci sia stata violazione del diritto all’istruzione del disabile.
Avezzano, 02.12.2019 Avv. Salvatore Braghini