Le riunioni del Collegio dei docenti rappresentano il luogo in cui si estrinsecano le decisioni assunte dall’organo in parola che oggettivamente poi prendono vita attraverso il corpo delle delibere. Il termine collegio rinvia infatti all’aggregazione di persone fisiche che si riuniscono insieme e si esprimono in un’unica volontà, perché formalmente delegate ad assolvere specifiche funzioni nell’ambito dell’ordine cui appartengono.
Il primo atto formale perché un collegio sia operativo è la sua convocazione che di norma, secondo quanto disposto dal comma 4, art.7 del D. Lgs. n.297 del 1994 avviene su proposta del dirigente scolastico ogni qualvolta questi “ne ravvisi la necessità oppure quando almeno un terzo dei suoi componenti ne faccia richiesta”. E’ lo stesso dirigente che ai sensi dell’art.396 comma 2, lett.c del citato decreto cura successivamente l’esecuzione delle delibere assunte dal predetto organo.
L’atto di convocazione e il suo relativo ordine del giorno, comprensivo degli argomenti che nella seduta saranno trattati, rappresentano il momento in cui ha inizio formalmente l’attività del collegio, la fase prodromica all’azione di cui l’organo è investito, che poi darà risultanze concrete al momento della riunione e si perfezionerà, di conseguenza, negli atti adottati dall’organo ossia nelle sue delibere. L’oggetto della delibera di un organo collegiale, così come appare anche specificato nell’ordine del giorno, costituisce dunque la fase istruttoria e preparatoria all’argomento, tutto ciò che porterà in essere alla formazione della volontà unitaria.
L’attenzione va posta proprio sulla validità e legittimità delle delibere operate in seno al collegio dei docenti, elementi fondamentali affinché le decisioni prese, espresse dalla maggioranza, abbiano la loro efficacia. Per questo occorre chiarire sin da subito alcuni principi ineccepibili ed insiti nell’attività del collegio.
Sulla validità delle sedute dell’organo vale quanto disposto dall’art.37 commi 1 e 2 del D.Lgs. n.297 del 1994 i quali stabiliscono che “l’organo collegiale è validamente costituito anche nel caso in cui non tutte le componenti abbiano espresso la propria rappresentanza. Per la validità dell’adunanza del collegio dei docenti (…) è richiesta la presenza di almeno la metà più uno dei componenti in carica”. Si tratta del cosiddetto quorum strutturale. Non vige quindi la regola del collegio perfetto. Tuttavia secondo un parere del Consiglio di Stato, sez. consultiva per gli atti normativi, n.104 del 23 aprile 2001 è sempre consigliato accertare l’effettivo numero legale poiché “alla stregua dei principi che governano il funzionamento degli organi collegiali, la verifica del numero legale è necessaria allorché il collegio sia prossimo ad esprimersi in forme (ad es. alzata di mano) che non consentono di acclarare formalmente il numero dei partecipanti alla votazione, risultando per converso la formale verifica superflua se la concreta modalità di votazione (ad es. chiamata nominale, come nel caso di specie) formalizza automaticamente il numero dei partecipanti alla stessa (…). La deliberazione irregolarmente espressa costituisce un atto infraprocedimentale privo di giuridica rilevanza ed insuscettibile perciò di spiegare il proprio tipico effetto formale nel seguito della procedura”.
Come è già stato sottolineato, la convocazione dell’organo avviene a cura del presidente; la C.M. del 16 aprile 1975, n.105 avente ad oggetto “applicazione del regolamento tipo nelle more dell’adozione del regolamento interno” all’art.1 indica che “la convocazione degli organi collegiali deve essere disposta con un congruo preavviso – di massima non inferiore ai 5 giorni – rispetto alla data delle riunioni. La convocazione deve essere effettuata con lettera, diretta ai singoli membri dell’organo collegiale e mediante affissione all’albo di apposito avviso; in ogni caso l’affissione all’albo dell’avviso è adempimento sufficiente per la regolare convocazione dell’organo collegiale. La lettera e l’avviso di convocazione devono indicare gli argomenti da trattare nella seduta dell’organo collegiale”. Tali aspetti procedurali se inficiati possono determinare la nullità della convocazione. Peraltro, tale argomentazione è stata sostenuta anche da una consolidata giurisprudenza amministrativa che ha reso esplicito nel tempo l’assunto secondo il quale “la mancata convocazione di uno o più componenti rende illegittima l’adunanza e conseguentemente, le deliberazioni nella stessa prese, a nulla rilevando la presenza del numero legale, che non sana il vizio della convocazione” (T.A.R. Veneto decisione del 25/07/1974 n.21). Anche una decisione del Consiglio di Stato (n.998 del 19/02/2002) ha espresso che “l’omessa convocazione della totalità dei componenti del collegio determina l’illegittimità delle sedute e delle deliberazioni adottate, che può essere fatta valere dal soggetto avente titolo a partecipare alle sedute, indipendentemente da ogni prova di resistenza sull’esito delle votazioni, in quanto l’omessa convocazione (con conseguente mancata conoscenza dell’ordine del giorno), costituente impedimento alla partecipazione del componente non convocato alla riunione, lede la sfera degli interessi del singolo con riferimento all’esercizio dell’ufficio di cui è contitolare e del potere decisionale di intervenire o meno alla riunione, e di concorrere, dunque, o meno, al risultato della seduta (dec. n. 909 del 16 novembre 1987)”. E’ fuor di dubbio quindi che la convocazione è un dato imprescindibile per la regolarità della riunione.
L’ordine del giorno della convocazione delinea l’antefatto dell’azione di cui l’organo è sollecitato a svolgere un approfondimento, un iter istruttorio di preparazione agli argomenti, in modo che si arrivi all’atto formale della delibera preparati e consapevoli di quanto sarà affrontato; tutto ciò è anche supportato da riferimenti giurisprudenziali i quali hanno affermato che “ai fini della validità della convocazione di un organo collegiale, è necessario che l’ordine del giorno individui gli argomenti da trattare in modo tale che i membri del Collegio abbiano la possibilità di valutare l’importanza della seduta e il contenuto dei problemi da risolvere”. (T.A.R. Puglia – Lecce, decisione 7/7/1979, n. 175) o ancora che “nell’ordine del giorno della seduta di un organo collegiale deve essere menzionato l’oggetto della deliberazione con espressioni idonee a consentire la precisa indicazione degli argomenti da trattare, in modo che i singoli membri del collegio abbiano la possibilità di valutare l’importanza della seduta ed il contenuto dei problemi da risolvere”. (Consiglio di Stato, decisione 5/6/1979, n. 427).
Sugli argomenti non inseriti all’ordine del giorno non è possibile deliberare salvo che la decisione sia assunta all’unanimità; infatti è stato ribadito che “è legittima la deliberazione di un organo collegiale in ordine ad una materia non specificatamente indicata all’ordine del giorno, allorché risulti per certo che tutti i componenti del collegio erano preparati per discutere l’argomento e lo hanno discusso, deliberando all’unanimità” (Consiglio di Stato, decisione 14/07/1970 n.679), mentre una sentenza del TAR Puglia – Bari, 5/2/2003, n. 550 ribadisce che “è consolidata la giurisprudenza nel ritenere illegittima la deliberazione assunta da un organo collegiale, relativamente ad un oggetto non previamente indicato nell’ordine del giorno della seduta, non essendone consentita la trattazione fra le voci “varie ed eventuali”, almeno qualora l’argomento abbia un’oggettiva rilevanza ed implichi un articolato procedimento (così Cons. Stato, Sez. VI, 27/8/1997, n. 1218). L’ordine del giorno rappresenta invero non solo lo strumento mediante il quale avviene la convocazione dell’organo collegiale (configurandosi dunque come atto di iniziativa del subprocedimento inteso alla regolare costituzione del collegio), ma indica altresì la predeterminazione delle materie oggetto di trattazione, ed adempie dunque alla chiara finalità di consentire ai membri del collegio di valutare l’importanza della seduta ed il contenuto degli argomenti iscritti”.
Il processo logico del procedimento, anteriore alla seduta vera e propria del collegio, è quindi la convocazione e la delineazione dell’ordine del giorno cui deve seguire la costituzione del quorum strutturale, vale a dire la presenza dei componenti necessari affinché la seduta sia valida.
La seduta rappresenta il luogo fisico e temporale in cui l’azione del collegio prende vita; in essa i singoli membri possono intervenire e partecipare alla formazione della volontà dell’organo, incidendo anche sostanzialmente sulle decisioni da intraprendere. Alla discussione segue la votazione che ne concretizza la volontà.
Ai sensi dell’art. 37 comma 3 del D.Lgs. n.297 del 1994 le deliberazioni si intendono “adottate a maggioranza assoluta dei voti validamente espressi, salvo che disposizioni speciali prescrivano diversamente. In caso di parità, prevale il voto del presidente”. E’ lecito quindi astenersi; peraltro tale assunto trova conferma in una sentenza del Consiglio di Stato, n.7050 del 4 novembre 2003 “la regola dell’astensione del componente dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale, di cui fa parte, deve trovare applicazione in tutti i casi in cui egli, per ragioni di ordine obiettivo, non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale; (…) Il giudizio sull’interesse del soggetto tenuto ad astenersi è necessariamente prognostico e l’obbligo di astenersi diventa attuale allorché il soggetto “interessato” è messo in condizione di conoscere che l’atto deliberativo lo riguarda direttamente”. Resta salva la facoltà per ogni componente dell’organo, in sede di deliberazione, di esprimere il proprio dissenso; l’art. 24 del D.P.R. n.3 del 1957 specifica proprio sulla responsabilità degli organi collegiali, affermando che “quando la violazione del diritto sia derivata da atti od operazioni di collegi amministrativi deliberanti, sono responsabili, in solido, il presidente ed i membri del collegio che hanno partecipato all’atto od all’operazione. La responsabilità è esclusa per coloro che abbiano fatto constatare nel verbale il proprio dissenso”. Nel verbale sarà necessario riportare il numero dei voti a favore, dei contrari e degli astenuti.
In tema di votazione il comma 4 dell’art.37 del citato decreto aggiunge che quest’ultima è segreta solo quando si faccia questione di persone, quindi nei casi in cui sia richiesta da parte dei membri l’esercizio di una attività discrezionale che comporti la manifestazione di giudizi ed apprezzamenti riferiti a persone. L’adozione di una votazione segreta che non abbia una natura discrezionale e che quindi risulti essere un’eccezione alla regola generale, deve essere espressamente rilevabile nel verbale (“debbono per contro essere adottate a voti palesi le deliberazioni non concernenti persone” Sandulli). Riguardo alla votazione segreta una sentenza del Tar Piemonte del 10 aprile 2009 n.988, benché concernente una delibera degli Enti Locali, ha in via generale, espresso il principio che il ricorso alla votazione segreta nei casi non indicati dalla legge non costituisce “per giurisprudenza amministrativa consolidata, motivo di illegittimità della determinazione intrapresa”; tuttavia “le ragioni della scelta devono risultare non nelle fasi preliminari all’adozione del provvedimento medesimo, ma solo nell’atto conclusivo del procedimento”. Di conseguenza il ricorso alla votazione segreta dovrebbe in teoria essere motivato, la stessa sentenza poc’anzi richiamata, asserisce infatti che tale votazione sia stata adottata dal collegio allo scopo di favorire “la libertà di determinazione” nella scelta.
Giova ricordare che nella votazione degli organi collegiali numerose sentenze del Consiglio di Stato hanno sottolineato che la partecipazione di soggetti estranei alle sedute rende illegittime le deliberazioni assunte. E’ il caso del Collegio dei docenti, organo la cui componente, come sancito da comma 1 dell’art.7 del D.Lgs.297 del 1994 è formata “dal personale docente di ruolo e non di ruolo in servizio nel circolo o nell’istituto, ed è presieduto dal direttore didattico o dal preside”. La sentenza del Cons. di Stato del 12 aprile 2001 n.2258 così afferma“deve, pertanto, ribadirsi, alla stregua di un rigoroso orientamento giurisprudenziale in materia (Cons. Stato, Sez. VI, 21 agosto 1993, n. 585; Sez. V, 19 dicembre 1980, n. 989; Sez. IV, 8 marzo 1967, n. 74), secondo cui la presenza di soggetti non legittimati in un organo collegiale vizia gli atti adottati tutte le volte che detta presenza superi la stretta necessaria esigenza del compimento di attività serventi al funzionamento dell’organo stesso, in quanto i soggetti non legittimati possono aver influenzato la formazione del convincimento dei componenti il collegio. E’ il caso di aggiungere che la questione riguardante la partecipazione, alle sedute di un collegio, di soggetti non legittimati non attiene al problema del quorum necessario per la legittima adozione dei provvedimenti collegiali, ma il diverso problema della possibilità che i soggetti estranei, attraverso la discussione, siano in grado di influenzare la volontà del collegio, possibilità questa che è direttamente correlata alla partecipazione di soggetti estranei ai collegi, sia che si tratti di collegi perfetti, che di collegi imperfetti. Sotto diverso profilo, ne consegue che la questione della illegittima partecipazione di soggetti estranei al collegio non può essere superata con la prova di resistenza, poiché l’illegittimità delle deliberazioni adottate discende dal semplice fatto della partecipazione alla seduta di soggetti non legittimati che possono, appunto, influenzare le stesse deliberazioni”.
La fase successiva alla delibera è la verbalizzazione che viene esperita attraverso la redazione di un processo verbale a cura del segretario, nominato da presidente. Entrambi sono tenuti a sottoscriverlo e in questa occasione il segretario riveste la figura di pubblico ufficiale e l’atto da lui formato fa piena prova, fino a querela di falso, ex art.2700 del codice civile. In merito al verbale, la Circolare Ministeriale n.105 del 1975, all’art.1 comma 4 dispone che il processo verbale sia redatto su apposito registro a pagine numerate.
Il verbale del collegio dei docenti rappresenta l’elemento materiale in grado di attestare lo svolgimento della seduta e la relativa formazione della volontà dell’organo, durante la fase di discussione e la successiva delibera. Qui, sulla scorta di una sentenza del Consiglio di Stato, non è ultroneo affermare che va fatta un distinzione tra la delibera vera e propria e il verbale che ne certifica, al contrario, la sua entità fisica e sostanziale. La delibera coincide con la manifestazione della volontà dell’organo così come si è formata durante la seduta; il verbale è il documento che prova l’esistenza dell’avvenuta deliberazione, “la manifestazione di volontà che costituisce il contenuto della deliberazione, e la verbalizzazione che riproduce tale manifestazione, attestandone l’esistenza” (Consiglio di Stato, n.6208 dell’11 dicembre 2001). Questi due dispositivi, delibera e verbale, da un punto di vista strettamente giuridico, non sono infatti interdipendenti, giacché la “determinazione volitiva dell’organo” non dipende dall’elemento formale del verbale; quest’ultimo non è infatti un atto collegiale, ma si ribadisce, che esso sostanzia la res che garantisce a norma di legge la volontà del collegio. L’indipendenza di tali elementi non sminuisce tuttavia l’importanza del verbale che per avere riconosciuta una sua esistenza, comporta la sua sottoscrizione da parte del segretario che lo redige, contestualmente a quella del presidente, nonché la sua consequenziale approvazione nella seduta successiva. La sottoscrizione del verbale si applica anche ai suoi eventuali allegati che rivestono una funzione di supporto e di memoria alla delibera assunta; gli allegati costituiscono pertanto parte integrante del verbale.
L’approvazione del verbale può infatti avvenire in un momento non contestuale alla delibera, anche se occorre tenere presente quanto espresso dal TAR Lazio, 2/02/2004, n.939, che così afferma: “l’approvazione del verbale non è elemento costitutivo della delibera collegiale né elemento essenziale dell’atto che la documenta, ma soltanto momento di perfezionamento dell’iter procedurale, che ha rilievo determinante per i componenti del Collegio che hanno adottato la delibera, lasciando aperto il termine per una loro eventuale impugnativa di detto verbale”.
In tema di impugnativa risulta interessante anche il consolidato orientamento giurisprudenziale così come specificato in una sentenza del Tar Milano (sentenza 15 giugno 2012, n. 1680) “secondo cui il concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, rilevante ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, sia con riferimento alla previgente disciplina (v. l’art. 21, primo comma, l. n. 1034/1971), sia con riguardo a quella attuale (v. l’art. 41, 2° comma, c.p.a.), non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale; ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Pertanto si presenta sufficiente, quanto all’onere di impugnativa, una conoscenza dell’esistenza dell’atto e della sua portata lesiva, potendo poi integrare il gravame con lo strumento del ricorso per motivi aggiunti come, del resto, statuito anche dall’art. 120, comma 5, c.p.a. (Cons. Stato, sez. IV, 21 dicembre 2001, n. 6339; sez. V, 6 ottobre 2003, n. 5873; 10 marzo 2003, n. 1275; da ultimo IV, 29 luglio 2008 n.3750). Secondo questo orientamento, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.
In ogni caso “il verbale della seduta di un organo collegiale non è mai la riproduzione meccanica della discussione orale, ma è un documento giuridico e riporta ciò che giuridicamente interessa; essendo la verbalizzazione null’altro che la forma scritta dell’atto orale da verbalizzare, ciò che non è nel verbale non è neppure nell’atto”. (TAR Lazio, decisione 9/7/1980 n.782). Indi non è necessario riportare tutto in maniera integrale, “il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse” (Consiglio di Stato, 25/7/2001, n.4074). Come si è avuto già modo di sottolineare il verbale non è un atto collegiale ma un documento che attesta la determinazione volitiva dell’organo; “la non ascrivibilità del verbale alla categoria degli atti collegiali comporta, come conseguenza, che la sottoscrizione di tutti i componenti del collegio, della cui attività in esso venga dato atto, non può considerarsi elemento essenziale per la sua esistenza ed intrinseca validità, che possono essere incise solo dalla mancanza della sottoscrizione del pubblico ufficiale che svolge la funzione di redattore del verbale, ovvero dalla mancata indicazione delle persone intervenute (Consiglio di Stato, 25/01/2003, n.344). L’art. 7 del D.P.R. n.445 del 2000 stabilisce che “il testo degli atti pubblici comunque redatti non deve contenere lacune, aggiunte, abbreviazioni, correzioni, alterazioni o abrasioni. Sono ammesse abbreviazioni, acronimi, ed espressioni in lingua straniera, di uso comune. Qualora risulti necessario apportare variazioni al testo, si provvede in modo che la precedente stesura resti leggibile”.
In ultimo, ogni membro del collegio, ai sensi della Legge n.241 del 1990, ha diritto all’accesso del verbale senza che occorra specificare un interesse concreto; a proposito una recente sentenza del Consiglio di Stato del 6 maggio 2013 n.2423 ha specificato che “l’interesse è in re ipsa, inerendo alla funzione di componente del collegio dei docenti, che giustifica l’esigenza di conservare e poter disporre della documentazione dell’attività svolta. Il componente di un organo collegiale dell’amministrazione ha un interesse concreto e diretto, oltre che qualificato, a disporre di copia degli atti e dei verbali inerenti all’attività del collegio stesso, per verifica, approfondimento, memoria dell’iter di formazione della volontà collegiale (cfr. Cons. Stato, VI, 9 giugno 2005, n. 3042); disponibilità che non può essere circoscritta solo all’occasione delle riunioni cui egli partecipa o della apposizione della firma ai verbali ad esse relativi. Proprio alla qualità di componente di organo collegiale dell’istituzione scolastica si riconnette l’interesse, cui la disponibilità della documentazione può essere funzionale, ad ogni utile iniziativa sul piano propositivo e deliberativo per il miglior perseguimento degli interessi di rilievo pubblico che fanno capo all’istituzione stessa”.
Katjuscia Pitino